Ambiente

Oceani più caldi significa specie marine a rischio

Secondo lo studio A climate risk index for marine life, il surriscaldamento dei mari di 3-5° entro il 2100 potrebbe compromettere la sopravvivenza del 90% di flora e fauna acquatiche
Credit: Евгения Пивоварова/ Unsplash
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
29 ottobre 2022 Aggiornato alle 13:00

Che il cambiamento climatico stia avendo un impatto profondo sugli ecosistemi marini non è (purtroppo) una novità. Ora, però, uno studio rivela quanto quell’impatto potrebbe essere drammatico, per la biodiversità degli oceani ma anche per la vita sulla terraferma. Secondo i ricercatori del Bedford Institute of Oceanography e della Dalhouse University, infatti, se le temperature degli oceani si alzeranno di 3-5° entro il 2100, a essere a rischio potrebbe essere il 90% delle specie marine.

Lo studio A climate risk index for marine life, pubblicato su Nature, ha elaborato un vero e proprio indice di rischio climatico (Climate risk index), capace di indicare per ognuna delle 25.000 specie analizzate – che vanno dal microscopico plancton ai grandi predatori e alle balene, in tutti gli ecosistemi marini dai tropici ai poli – l’impatto del surriscaldamento globale.

I ricercatori spiegano che, «proprio come una pagella valuta gli studenti su materie come matematica e scienze, abbiamo valutato ciascuna specie in base a 12 fattori di rischio climatico specifici», che sono legati alle caratteristiche innate di una specie – a esempio, le dimensioni del corpo e la tolleranza alla temperatura – e al contempo alle condizioni oceaniche passate, presenti e future in tutti i luoghi in cui si trovano.

La scala di rischio «varia da trascurabile (più bassa) a critica (più alta) e rappresenta sia la gravità degli impatti climatici dannosi sulle specie sia la loro probabilità che si verifichino». Nello scenario peggiore, solo una specie su 9 non sarebbe a rischio alto. La situazione sarebbe particolarmente critica per i grandi predatori come squali e tonni, negli ecosistemi subtropicali e tropicali che tendono a essere più caldi e negli ecosistemi costieri, quelli che supportano il 96% del pescato mondiale, con gravi effetti a catena per le persone che dipendono maggiormente dall’oceano.

In questo scenario, i rischi per specie come il merluzzo e le aragoste erano sensibilmente maggiori nei territori delle nazioni a basso reddito, dove le persone dipendono maggiormente dalla pesca per soddisfare i propri bisogni nutrizionali: questo, ha ricordato Daniel G. Boyce, uno dei ricercatori autore dello studio su The Conversation, rappresenta «un altro esempio di disuguaglianza climatica in cui i Paesi a basso reddito, che hanno contribuito in misura minore al cambiamento climatico e stanno riducendo in modo più aggressivo le proprie emissioni, stanno subendo i peggiori impatti pur avendo la minore capacità di adattarsi a essi».

Questo futuro, però, non è inevitabile: lo studio non analizza un unico scenario socioeconomico, ma si concentra su due futuri possibili, in cui a fare la differenza è la quantità di emissioni di gas serra prodotti dalla società. In uno scenario a basse emissioni – in cui la temperatura media degli oceani aumenterà di uno o due gradi Celsius entro il 2100, secondo il limite di riscaldamento globale di due gradi Celsius stabilito dall’Accordo di Parigi – il rischio climatico è enormemente ridotto per quasi tutta la vita marina, con una riduzione addirittura del 98,2%. Il rischio sproporzionato per la struttura dell’ecosistema, la biodiversità, la pesca e le nazioni a basso reddito sarebbe quindi enormemente ridimensionato.

«Il nostro studio sottolinea che siamo a un bivio critico e che la scelta di un percorso più sostenibile che dia la priorità alla mitigazione del clima porterà a chiari benefici per la vita oceanica e le persone», ha concluso Boyce.

Cosa significa questo? In poche parole, che dobbiamo agire – non solo come individui ma, piuttosto, a livello sistemico – per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra, cercando almeno di rimanere entro i limiti individuati nel 2015. Secondo le stime, siamo già molto, molto in ritardo. Ma il tempo, ormai, inizia a scarseggiare.

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