Diritti

C’è un problema di revenge tourism?

Il turismo sta gonfiando nuovamente i propri volumi - nel 2023 è previsto un incremento della spesa per hotel e ristoranti del 16% rispetto al 2019 - ma non è detto che sia un bene
Credit: Tim Gouw
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30 aprile 2023 Aggiornato alle 06:30

Non servono grandi stime per rendersi conto che il turismo ha ingranato nuovamente la marcia. Basta guardare i prezzi e la disponibilità di una notte di pernotto a Roma, per rendersi conto che le masse di viaggiatori sono tornate. Affamate e cariche di desiderio, al punto da spendere un minimo di 100 euro a notte per sostare nella capitale, ad almeno 8 km dal centro, in un anonimo week-end di maggio. I prezzi in vicinanza delle feste comandate, sono tutta un’altra storia.

L’impennata segue un blocco durato quasi due anni dovuto all’affastellarsi di crisi di varia natura, il Covid-19 prima, la guerra in Ucraina poi. Sarebbe miope, però, non considerare che fino a pochi mesi fa, la fede nella possibilità di viaggiare serenamente era ancora molto bassa. Dopo due anni e quasi quattro mesi interi dallo scoppio dell’emergenza Covid-19 sembra che la nostra psiche sia pronta a integrare nuovamente il viaggio come normalità. Come normale, banale, comportamento di consumo.

Dopo questi anni di astensione forzata, però, c’è una foga maggiore, sottoprodotto dell’attesa e della frustrazione gonfiata da chi anche nei mesi di lockdown ha viaggiato eludendo i divieti, usando scali calcolati per arginare i blocchi di ingresso e uscita. Il tutto, a fini turistici ovviamente.

Nel periodo in cui ci siamo incollati con più foga ai cellulari e ai social media, le immagini di viaggio hanno alimentato un desiderio, un misto tra la voglia di uscire di chi era bloccato in casa e l’ansia di star perdendo qualcosa. Un miscuglio interessante di normalissimi sogni si è intrecciato alla voglia di recuperare, tutto, in grande e con foga. I viaggiatori hanno atteso, accumulato e ora, in questo 2023 sono pronti a spendere.

Naturalmente non tutti, viaggiare per diletto è un privilegio di cui godono pochissime persone al mondo. Secondo i dati Eurostat nel 2019 circa il 65% dei cittadini europei ha intrapreso almeno un viaggio di piacere, una cifra che si è drasticamente contratta nel 2020 ma che suggerisce qualcosa di estremamente evidente, nel 2019, prima del Covi-19 e delle chiusure, il 35% della popolazione europea riconosciuta - chi possiede la cittadinanza di uno stato Ue - aveva compiuto meno di un viaggio di piacere. Era rimasta a casa, tutto l’anno, perché non poteva permettersi le spese di un viaggio.

Il dato diventa ancora più sinistro se pensiamo che solo il 6% della popolazione mondiale ha preso un aereo in vita sua. Il 94% della popolazione umana non ha mai volato. E il perché è presto detto, viaggiare è un privilegio di chi può effettivamente pagare per farlo.

L’iniquità è palese, ma nonostante l’evidenza, viaggiare per diletto è un comportamento quasi mistificato, considerato una fonte inesauribile di soddisfazione e positività per tutti. All’atto pratico, oltre a essere un’attività impregnata di comportamenti coloniali - basti pensare alla sola definizione di mete low-cost, sinistramente coincidenti con i Paesi del Sud del Mondo - è anche estremamente impattante.

Gli aerei, da soli, sono responsabili per circa il 2,5% delle emissioni di CO2. Sembra poco, in effetti, ma considerando che meno del decimo percentile della popolazione mondiale vola il problema acquisisce un volume decisamente notevole.

Soprattutto se si inserisce nell’equazione la consapevolezza che i voli interni a medio e lungo raggio sono tra quelli più impattanti vista la frequenza, la mole di emissioni prodotte e la loro natura non così necessaria. Tratte che si potrebbero fare in treno vengono compiute in volo, perché volare costa meno.

Il risparmio economico permette di accorciare tempi e distanze, di fare più esperienze e di aprire, seppur di poco, il ventaglio dell’accesso alle attività turistiche. Il costo reale dei voli, della presenza massiccia dei turisti, delle richieste fortemente standardizzati, della prevalenza occidentale dei viaggiatori nel mondo, dell’imposizione culturale che si portano dietro, del danno ambientale, della loro concentrazione in zone specifiche, quello non viene contemplato. Perché ciò che conta è viaggiare.

Nel 2023 le stime prevedono un incremento della spesa per hotel e ristoranti pari al 16% in più rispetto al 2019, per un totale di circa 2,7 trilioni di dollari. Stando alle previsioni di The Economist nel 2022 gli arrivi erano già aumentati del 60% rispetto al 2020, e il 2023 registrerà un ulteriore aumento del 30%. Non saremo ancora ai livelli pre pandemia, ma considerando le contratture economiche e le difficoltà da esse derivate, la crescita appare persino sproporzionata.

Revenge tourism, così viene definita questa vena concentrata di incrementi, con un riferimento grottesco e un desiderio di rivalsa mal riposto.

La vendetta contro il Covid-19 sarà espressa nel ritorno degli ingorghi umani, nelle masse affastellate a far la coda in attesa di fotografare una cascata in Islanda, nei pullman che rigurgitano gruppi di visitatori nelle strade di Roma o ancora nella mole di persone armate di cellulare che espelle i fedeli dalla stretta sala del Wat Phra Chetuphon Wimon Mangkhalaram Rajwaramahawihan ( per i turisti, Wat Pho) di Bangkok.

La rivincita ha un sapore amaro, perché non è nulla più che la ripresa di un comportamento di consumo che viene imbellettato da esperienza di vita. E sì, viaggiare è bellissimo, ma con i codici attuali è altamente lesivo.

La rivalsa non è del turista-consumatore, ma dell’industria turistica.

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