Ambiente

Berlino dice addio al riscaldamento da idrocarburi?

La Germania spinge l’acceleratore verso l’obiettivo della carbon neutrality del 2045 e punta all’indipendenza dal gas russo dopo i tentativi di ricatto di Mosca. I dubbi, però, sono diversi
Gas generation in plants of mele Biogas
Gas generation in plants of mele Biogas Credit: Jens Büttner/dpa
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24 aprile 2023 Aggiornato alle 09:00

Potrebbe esserci una svolta epocale nell’ambito del programma europeo di lotta al cambiamento climatico.

La Germania, tra le economie trainanti del vecchio continente, ha deciso di proibire a partire dal 2024 i sistemi di riscaldamento che si alimentano dalla combustione di gas e derivati del petrolio. Una decisione presa in previsione dell’obiettivo di essere climaticamente neutrali adottato da Berlino entro il 2045, che può apparire quasi fantascientifica, ma che in realtà è il punto di arrivo di un lungo percorso condiviso anche con altri colleghi europei, non sempre lineare o non privo di criticità.

Anzitutto va specificato che il testo della normativa, che ha generato diversi malumori all’interno della coalizione guidata dall’Spd di Scholz, non prevede uno stop totale dell’utilizzo di gas e combustibili fossili per il riscaldamento. I nuovi impianti che saranno installati a partire dal 1 gennaio 2024, dovranno infatti essere alimentati almeno al 65% da energia proveniente da fonti rinnovabili (non solo quindi).

Già così però il risparmio in termini ecologici sarebbe ragguardevole: basti pensare che il solo settore del riscaldamento nel 2022, in Germania è costato ben 112 milioni di tonnellate di emissioni, circa il 15% sul totale di tutte le attività antropiche. Certo, si potrebbe fare di più, anche perché sono previste esenzioni particolari. L’asticella del 65% non si applica a esempio ai proprietari di case over 80, che secondo il portale DeStatis, sarebbero il 7,3% del totale della popolazione, circa 84 milioni di persone. Attenzione però: nel caso di vendita o eredità dell’immobile l’obbligo entra in vigore, dopo una tregua di due anni per permettere eventuali adeguamenti.

I mal di pancia in seno al governo nascono soprattutto quando bisogna mettere mano al portafoglio: secondo le stime infatti la manovra potrebbe costare intorno ai 9,16 miliardi di euro, e non una tantum, ma ogni anno fino al 2028. Inoltre, il governo ha assicurato che ai cittadini saranno offerti cospicui finanziamenti statali: un sussidio del 30% sulla spesa per gli edifici residenziali occupati dai proprietari con un extra (10%) per quelli che scelgono sistemi di ultima generazione. Se poi chi possiede l’immobile è già destinatario di una misura di sussidio legata al welfare, l’extra può raggiungere il 20%.

Ma il piano, benché il ministro dell’economia, il verde Robert Habeck, abbia rassicurato che «i fondi ci sono», non convince i tedeschi. Secondo una proiezione dell’istituto di sondaggi Forsa il 78% di loro è scettico, e il 62% del campione teme che queste misure possano portare a bollette più salate. Molti contestano anche il poco tempo per effettuare il cambio di riscaldamento, considerando che i trasgressori rischiano una multa fino a 5 mila euro e il termine ultimo per correre ai ripari dista meno di un anno.

Va detto però che misure simili sono state prese anche in Olanda e Austria e, in un quadro più ampio, si rifanno a una decisione comunitaria: quella della Commissione che punta a modificare il regolamento 813/2013, spingendo gli Stati membri a bandire la vendita di caldaie a gas entro il 1 settembre del 2029.

La causa ambientale però potrebbe aver ricevuto una poderosa spinta da una ragione più contingente: la guerra in Ucraina. Con l’inizio del conflitto e i conseguenti tentativi di Mosca di usare il gas come arma di ricatto, diversi Paesi hanno scelto di tagliare anche dell’80% le forniture provenienti dai condotti russi. Ma il gas che non si può prendere dalla terra di Putin va trovato altrove, e spesso i luoghi deputati, come Algeria e Nigeria, non mettano a proprio agio l’Europa sotto il profilo ideologico. Lo stesso avviene per partner ingombranti come gli Stati Uniti, che secondo i dati del Consiglio dell’Unione Europea ha fornito al vecchio continente 50 miliardi di metri cubi di gas tra gennaio e novembre 2022 (nel 2021 nello stesso periodo, erano 22).

Quando poi dal gas si passa la petrolio, la questione si fa ancora più incerta. All’inizio di aprile 2023 una cordata di produttori guidata dall’Arabia Saudita ha deciso di tagliare ulteriormente la produzione del greggio, con sorpresa e disappunto di Washington e non solo, di un milione di barili, un ennesimo colpo di forbice dopo i già annunciati due milioni in meno.

Alla luce di questi scenari, ricorrere alle rinnovabili per il riscaldamento, per l’Europa si rivela indispensabile anche poter mantenere una propria indipendenza nel quadro di alleanze globali, senza rischiare che le bollette la vincolino da una o dall’altra parte. Nel 2021, sempre secondo il Consiglio dell’Unione Europea, i cittadini degli Stati membri hanno consumato 412 miliardi di metri cubi di gas, principalmente per riscaldamento domestico e processi industriali.

Se è vero dunque che riforme in tal senso sono parte di un cammino non più rinviabile, è innegabile che arrivino in un momento di crisi politica non indifferente nei due Paesi europei che, per importanza strategica nell’Unione, dovrebbero traghettare il cambiamento. Gli scioperi e le manifestazioni che stanno scuotendo la Francia da settimane, e più recentemente anche la Germania, coinvolgono proprio le classi sociali che temono di pagare in bolletta il prezzo più alto della transizione, che se vuole funzionare non può prescindere da una più generale messa in discussione dell’attuale distribuzione della ricchezza.

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