Economia

La settimana corta piace, anche ai manager

Secondo l’indagine Aidp il 53% dei direttori intervistati è propenso a rimodulare l’orario di lavoro, da 5 a 4 giorni a settimana
Credit: Taylor Nicole
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12 aprile 2023 Aggiornato alle 15:00

Il 2022 è stato l’anno dei grandi cambiamenti, l’apice di tutte le questioni che la pandemia aveva provocato e che si sono riversate nel tessuto socio-economico, in particolare nel mondo del lavoro.

Lo smart working ha acuito l’esigenza di trovare un migliore rapporto tra la vita personale e lavorativa, portando milioni di persone a licenziarsi per cercare un’occupazione più flessibile e meno impattante sui propri interessi. Dopo le grandi dimissioni è arrivato il momento di affrontare in maniera più intensa la questione della settimana corta, non solo dal punto di vista dei lavoratori.

Sono proprio i direttori del personale (o Hr director) i protagonisti di un sondaggio curato dal Centro Ricerche dell’Associazione italiana direttori del personale curato dal prof. Umberto Frigelli, da cui è emerso che - su oltre mille intervistati - il 53% dei manager sarebbe favorevole alla introduzione di un periodo lavorativo breve fatto di 4 giorni invece che 5.

Guardando a questa metà di soggetti interpellati, il 79% ritiene che l’utilità della riduzione dei giorni di lavoro sia nella capacità di conciliare maggiormente la vita personale del lavoratore - fatta di interessi personali, amicizie e affetti vari - con il suo impegno lavorativo in senso stretto, che proprio grazie a meno giorni di lavoro non riuscirebbe a travalicare lo spazio intimo e privato del dipendente.

Secondo il 49% dei favorevoli la settimana breve aumenterebbe il benessere psico-fisico dei lavoratori, mentre per il 27% ci sarebbe un aumento di motivazione per la propria occupazione.

In generale, conferire maggiore spazio ai lavoratori per coltivare le proprie passioni o riposarsi di più sarebbe la soluzione più adatta per rispettare la loro vita personale e permettergli di raggiungere un più salubre equilibrio tra dovere e piacere, con impatti positivi sulla performance lavorativa.

Una scelta di questo tipo implica comunque un periodo di transizione adatto a definire nella contrattazione nazionale tutte le linee guida necessarie per tutelare i lavoratori e anche per permettere alle aziende di valutarne la sostenibilità economica e organizzativa.

La metà dei manager che si è mostrata più dubbiosa verso la settimana corta (di cui il 6% è nettamente contrario) infatti evidenzia tra le principali criticità proprio una difficile compatibilità economico-organizzativa tra le esigenze produttive delle imprese e quelle dei lavoratori che vorrebbero lavorare meno giorni, anche se generalmente le due metà di intervistati si mostrano generalmente propensi al dialogo, dato che oltre il 60% della totalità dei manager si ritiene propenso alla sperimentazione della settimana corta nella propria azienda per valutarne scientemente l’implementazione.

Effettivamente sono parecchi i casi (internazionali) in cui la sperimentazione ha portato a ottimi risultati in tema di produttività e riduzione di assenteismo. La società neozelandese Perpetual Guardian, specializzata in servizi di pianificazione patrimoniale, dal 2018 adotta con successo il modello inglese 100:80:100 – ossia il 100% dello stipendio per l’80% dell’orario di lavoro e capace di produrre il 100% dei risultati - mentre dal 2022 è stato lanciato un grande test monitorato dall’University of Cambridge, Oxford e del Boston College che coinvolge 33 imprese sparse tra Usa, Australia, Canada e Irlanda, dove l’applicazione della settimana corta su un complesso di 903 dipendenti ha portato un aumento della produzione dell’8%, con un taglio netto dell’assenteismo e dei giorni di malattia utilizzati dai dipendenti, oltre a un beneficio ambientale legato alla riduzione di CO2 emessa proprio grazie alla chiusura anticipata degli uffici.

Nel 2022 in Gran Bretagna la sperimentazione ha coinvolto banche, società di marketing e molte imprese del settore finanziario, con 72 aziende che hanno visto migliorare la produttività del 49%, portando l’89% delle imprese soggette al test a proseguire la prova anche per il 2023.

L’Italia si avvicina - timidamente - alla rimodulazione dell’orario di lavoro attraverso grandi gruppi che guardano molto all’estero cercando di emularne i passi più coraggiosi.

L’hanno implementata le sedi milanesi del colosso del food Mondelez International, l’azienda di marketing digitale Awin Italia o la multinazionale italiana Tria Spa, fornitore di macchinari metallici specializzata in tecnologie per il riciclo della plastica che mesi fa ha siglato un accordo aziendale per sperimentare da gennaio a luglio 2023 la riduzione dell’orario da 40 a 36 ore settimanali, con 4 giorni lavorativi fatti di 9 ore.

L’esempio più marcato è però quello di Intesa Sanpaolo, che da gennaio ha cominciato a introdurre gradualmente questa possibilità per le sue 200 filiali, estendendola di recente anche al comparto assicurativo, passando da 37,5 a 36 ore lavorative spalmate su 4 giorni.

Sul versante dei lavoratori, la ricerca Global Workforce of The Future di Adecco - fra le principali piattaforme di consulenza e soluzioni Hr nel mondo del lavoro – il 66% degli oltre 2.000 intervistati si dichiara interessata alla settimana corta, purché sia implementata senza ritoccare il salario.

Soltanto un dipendente su dieci (il 10% del totale) sarebbe disposto a lavorare 4 giorni ma con uno stipendio più basso, mentre il 18% potrebbe anche aumentare l’orario giornaliero di un’ora pur di non tornare in ufficio il venerdì.

Sono proprio questi elementi a destare maggiori dubbi nella percentuale di lavoratori più ostica alla settimana lavorativa ridotta, che fra le criticità principali pone l’eventualità di una diminuzione dello stipendio (collegata alla riduzione di ore passata in ufficio) oltre a un aumento del carico di lavoro nel caso in cui le ore perse vengano compensate e traslate nei 4 giorni lavorativi, con un conseguente carico di stress aggiuntivo.

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