Culture

I lavoratori dei musei guadagnano troppo poco

Mentre si fa un gran parlare dei biglietti dei musei e dei loro, probabili, rincari, ci si dimentica che nel nostro Paese i lavoratori che consentono a noi di visitarli hanno guadagni non idonei
Credit: ANSA/CLAUDIO GIOVANNINI
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 6 min lettura
5 febbraio 2023 Aggiornato alle 06:30

Musei gratis, anzi, no: musei carissimi – i più cari d’Europa – tanto i turisti se lo possono permettere. Il patrimonio culturale più ricco al mondo, anzi no: i musei italiani sono all’ottavo posto della classifica Unesco. Musei per tutti, anzi, no: musei per (troppi) pochi.

Dei musei italiani si dice tutto e il contrario di tutto. In mezzo a questo brusio di fondo di opinioni, dati, rumore, c’è però una certezza: i lavoratori del settore culturale del nostro Paese sono precari, sottopagati e senza diritti.

Lo ha rivelato pochi giorni fa, in modo impietoso, il questionario dell’associazione Mi riconosci!: stipendi medi sotto gli 8€ l’ora, contratti civetta o inesistenti, discriminazioni (di genere, e non), sottomansionamento nonostante livelli di istruzione e qualifiche superiori alla media.

Prima di discutere del prezzo dei biglietti, quindi, dovremmo probabilmente parlare di come assicurare alle persone che lavorano nei musei stipendi e inquadramenti adeguati al costo della vita, che garantiscano – quando ci riescono – non solo la mera sopravvivenza ma dignità a un intero settore, oltre che alle singole persone senza i cui sforzi quel settore non esisterebbe. Eppure, oggi i 25€ del biglietto di accesso agli Uffizi sono di 3 volte superiori allo stipendio orario della maggior parte dei dipendenti del settore.

Le parole d’ordine di Cultura 4.0, il piano di riforme e investimenti per l’attuazione del Pnrr – parliamo di fondi per 4,25 miliardi di euro – sono belle e importanti: digitalizzazione, abbattimento delle barriere fisiche e cognitive, transizione verde, rigenerazione, innovazione, ripresa. Parole che servono – come mostrano, per fare un esempio i dati dell’Osservatorio dell’Innovazione Digitale nei Beni e Attività Culturali del Politecnico di Milano secondo cui il sistema culturale ha bisogno di sviluppare anche le tecnologie basilari – ma che lasciano indietro altre parole senza le quali le fondamenta di ogni progetto rimangono di argilla: assunzioni, arricchimento degli organici, internalizzazione.

Ma è vero che i musei italiani costano meno?

Partiamo da qui: ci dicono che è necessario alzare il costo dei biglietti per allinearci a quelli degli omologhi stranieri, che sono più costosi e in cui le gratuità sono minori. Ma è vero? Impossibile il parallelo con Paesi come il Regno Unito, i cui principali musei, dal British Museum alla National Gallery, sono gratuiti, ma guardando ai cugini che ci somigliano di più (Spagna e Francia) le cose non sembrano esattamente così.

Iniziamo dai prezzi: il Prado costa 15€, il Louvre 17€. Al Reina Sofia si entra con 12€, la stessa cifra per il biglietto più economico del Musée D’Orsay, che raggiunge i 16€ per il più costoso. Situazione simile per il Centre Pompidou (massimo 18€ per l’accesso al museo e alle esposizioni temporanee).

E da noi? Non solo gli Uffizi che, ormai lo sappiamo, in alta stagione toccheranno la cifra record di 25€ (38€ nel biglietto combinato con i Giardini di Boboli, più 4€ di prevendita online), ma anche altri siti culturali più (il Colosseo) e meno (Mann di Napoli) celebri costano più dei musei oltreconfine, con cifre che partono da 18€ a salire.

E le gratuità o le tariffe agevolate? Nei musei statali italiani entrano gratis under18, insegnanti, studenti e docenti universitari di materie storico-artistiche, guide turistiche, interpreti, giornalisti, disabili con accompagnatori, dipendenti del Mic (Ministero della Cultura) e militari del Nucleo Patrimonio Culturale. Da 18 a 25 anni i cittadini Ue pagano solo 2 euro.

La situazione non è molto dissimile all’estero dove però sono previste più agevolazioni: non solo orari durante i quali l’accesso è gratuito per tutti, ma anche per categorie che da noi pagano prezzo pieno, tra cui disoccupati, famiglie a basso reddito e pensionati.

Persino la tanto odiata e amata domenica gratis non è un’iniziativa esclusivamente italiana: il Louvre, tanto per fare un esempio, è gratis la prima domenica di ogni mese e così molti altri musei francesi, mentre in Spagna ci sono generalmente fasce orarie quotidiane (più estese la domenica) in cui tutti possono accedere senza pagare il biglietto.

Biglietti più cari, stipendi più alti?

Si dice che è necessario aumentare il costo degli ingressi per adeguarsi agli standard europei ma questo, come abbiamo visto, non è del tutto esatto. L’adeguamento dei prezzi, però, potrebbe essere necessario per tutelare i lavoratori, andando a colmare quel deficit economico che impedisce un giusto riconoscimento sia dal punto di vista economico che contrattuale. Sarà così?

Non proprio, anche in questo caso. Come spiega il comunicato dell’Unione Sindacale di Base, “ci piacerebbe leggere gli stessi proclami, gli stessi riferimenti a questioni morali quando si parla di internalizzare e stabilizzare il personale che da anni presta servizio nel settore, o di garantire retribuzioni e contratti adeguati a chi, in appalto per 4-5€ lordi l’ora, mantiene aperti, fruibili e sicuri ogni giorno i luoghi della cultura. Chi guadagna sulla cultura italiana non sono i lavoratori né lo Stato, ma i privati che grazie alla Legge Ronchey del 1993 si sono accaparrati i cosiddetti servizi aggiuntivi. Biglietterie, bookshop, didattica, visite guidate, accoglienza e controllo accessi, diritti di prevendita: gran parte dei ricavi finisce nelle tasche delle aziende che hanno soppiantato le istituzioni nella gestione dei beni culturali”.

La legge a cui fa riferimento Usb è quella che regola alcune delle attività collaterali ai musei – come bookshop, guardaroba e caffetteria – permettendo che a gestirle siano i soggetti privati. Una legge ampliata nel 2004 dal Codice Urbani dei beni culturali e del paesaggio, che ha allargato i servizi aggiuntivi fino a includere accoglienza, audioguide, visite guidate, laboratori e didattica, mostre, pulizie, vigilanza.

A guadagnare dall’aumento degli introiti, quindi, non sarebbe tanto lo Stato – e conseguentemente i lavoratori – ma proprio i fornitori di servizi privati, che sono per la maggior parte grandi cooperative che si spartiscono ampie fette del mercato. Come avevano spiegato Laura Pasotti e Benedetta Aledda in un’inchiesta del 2021, infatti, la quota di incassi che va nelle casse dalle Soprintendenze, a esempio, nel 2019 era circa del 12%.

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