Economia

Perché abbiamo bisogno della bioeconomia (anche se ancora non lo sappiamo)

Integrare la natura nel sistema delle infrastrutture conviene. Scopriamo perché
Credit: DeepMind/ Unsplash  
Tempo di lettura 6 min lettura
16 gennaio 2023 Aggiornato alle 07:00

La bioeconomia trova la sua origine nella teoria dell’economista Nicholas Georgescu–Roegen il quale evidenziava la fallacità del sistema economico occidentale: se ogni attività produttiva comporta l’utilizzo di energia e risorse, per loro definizione, esauribili allora anche il paradigma di crescita costante viene meno.

Ma cos’è la bioeconomia? Si tratta di un meta-settore che utilizza le risorse biologiche, scarti compresi, per produrre beni ed energia intervenendo in ogni comparto della nostra economia.

Le motivazioni per cui dovremmo seguire un percorso economico più sostenibile sono, purtroppo, evidenti: la popolazione ha quest’anno superato gli 8 miliardi, il 32% delle foreste mondiali sono state distrutte, il 55% degli oceani è sfruttato per attività di pesca industriale.

Deforestazione, cambiamento climatico, alluvioni e incendi rappresentano il volto di un mondo che sta cambiando velocemente e che invece dovremmo tutelare. Anche perché, come evidenziava lo stesso Georgescu-Roegen, l’economia ne risente: le aziende sono strettamente connesse, anzi spesso dipendenti, alla natura e quando la natura si ribella gli effetti sono distruttivi per la società.

In questo contesto la bioeconomia costituisce una risorsa preziosa dalle grandi potenzialità.

Secondo il report “New Nature Economy” del World Economic Forum una gestione sostenibile delle foreste potrebbe portare entro il 2030 alla creazione di 230 miliardi di dollari di opportunità commerciali a cui si aggiungo 16 milioni di posti di lavoro.

Inoltre, integrare la natura nel sistema delle infrastrutture e dell’ambiente permetterebbe la crescita di opportunità di business per 3 trilioni di dollari oltre alla creazione di 117 milioni di posti di lavoro.

Questa forza intrinseca inizia a essere considerata a livello internazionale solo in tempi molto recenti: nell’ultima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici è stato affrontato anche il tema di un’economia circolare capace di interrompere il meccanismo industriale tradizionale.

Tra le esigenze che sono state identificate compare quella di trovare alternative energetiche green riducendo le emissioni di combustibili fossili. Un percorso che, tuttavia, non può essere intrapreso dall’oggi al domani come evidenzia Mario Bonaccorso direttore di Cluster Spring (il cluster italiano della Bioeconomia circolare), ma che necessita di strategie coese e decisive da parte di tutti i governi.

Negli ultimi anni la bioeconomia ha registrato una crescita non indifferente. Secondo l’8° rapporto sulla bioeconomia italiana, a oggi nel nostro Paese il valore della sua produzione è pari a 364,3 miliardi di euro, con una crescita di 26 miliardi rispetto al 2019, e con più di 2 milioni di occupati.

Dati che ci proiettano immediatamente nel carattere di resilienza che avvolge questo settore. Dal 2019 il lockdown e il Covid 19, la guerra Russia-Ucraina e il carovita si ripercuotono sulla nostra economia e sulle nostre vite, eppure nonostante i colpi sferrati la bioeconomia ha registrato una crescita notevole.

Un mercato che in Italia realizza circa il 10% della produzione nazionale e che si incastra perfettamente con il settore biotecnologico.

Secondo l’analisi “L’Italia del Pnrr: il ruolo delle biotecnologie” di Stefano Ferri per Ernst&Young in collaborazione con Federchimica Assobiotec, il mercato globale della bioeconomia in ambito biotech avrà un valore tre volte superiore entro il 2028.

Il connubio tra questi due ambiti garantisce numerosi vantaggi: in primis una maggiore efficienza in termini di costi e di sostenibilità ambientale, oltreché la creazione di soluzioni facilmente biodegradabili, riducendo la produzione di rifiuti e il consumo di acqua e fonti fossili, come spiegato da Elena Sgravetti, vice presidente Federchimica Assobiotec.

La dottoressa Sgravetti continua a spiegarne i vantaggi: «L’applicazione di queste tecniche può permettere di innovare settori maturi come quelli delle materie prime, della produzione di energia e intermedi, aderendo ai principi di sostenibilità ambientale, economica e sociale che sono propri della bioeconomia».

I settori italiani maggiormente coinvolti sono quello alimentare, delle bevande e del tabacco che da soli realizzano quasi metà del fatturato (42%), a seguire agricoltura, silvicoltura e pesca (17%) e l’industria di carta e derivati (8%).

Dalle stime del valore aggiunto della bioeconomia nelle nostre regioni si evince un ruolo di rilievo per il Nord Est (8%) e il Sud Italia (7%), mentre il Nord Ovest e il Centro rimangono marginali con valori al di sotto della media.

L’Italia agisce su questa potentissimo strumento tramite il Fondo di coesione e sviluppo che la rende protagonista del programma 2021-2027 e tramite i fondi del Pnrr che ammontano a 6,03 miliardi di euro incentrandosi su due pilastri: agricoltura ed economia circolare, energia e mobilità sostenibile.

Anche a livello europeo un nuovo concetto di economia viene piano piano ridisegnato. Il rapporto Bioeconomia in Europa sottolinea nel 2021 un valore di produzione di 1.500 miliardi di euro e oltre 7 milioni di occupati solamente nei primi 4 Paesi: risultato migliore per la Germania seguita da Francia, Italia e Spagna.

A corredare questi numeri il Green Deal Europeo del 2020 che si è posto l’ambizioso quanto necessario obiettivo di rendere l’Europa neutrale dal punto di vista climatico entro il 2050.

Obiettivo che per essere raggiunto necessita di strumentazioni adeguate come la Tassonomia Europea della finanza sostenibile. Questa permette di facilitare il riconoscimento di progetti e iniziative realmente sostenibili indirizzandovi gli investimenti. Una risorsa fondamentale per ridurre il rischio di greenwashing, ovvero di prodotti che di bio non hanno nulla, ma che riescono comunque ad accedere ai fondi.

Il mondo industriale così come lo conosciamo è destinato a cambiare o, meglio, a riadattarsi. Si tratta di un sistema non più sostenibile e il nostro pianeta ce lo ricorda continuamente tramite catastrofi naturali, che sono sempre più frequenti. E allora dobbiamo agire perché abbiamo un punto di partenza: dei fondi, degli strumenti e soprattutto l’alternativa di un modo nuovo e più rispettoso di fare economia.

Questo però non basta. Ci manca un quadro normativo chiaro e stabile, oltre alla creazione di una strategia adeguata per sfruttare le ricche soluzioni che la bioeconomia offre. In aggiunta come ci ricorda l’indagine di Ernst & Young sarebbe auspicabile una maggiore collaborazione tra il settore privato e quello pubblico incentivando gli investimenti tanto per la creazione di fatturato, quanto per creare capitale umano.

Leggi anche
Sostenibilità
di Fabrizio Papitto 3 min lettura
best practice
di Redazione 3 min lettura