Diritti

I nostri dati sono in pericolo?

Mettere le mani su informazioni sensibili sta diventando la massima ambizione di chiunque desidera vendere qualcosa. Politici compresi
Credit: Artem Podrez/ Pexels
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4 dicembre 2022 Aggiornato alle 06:30

In dicembre Human Rights Watch ha rivelato che il partito al potere in Ungheria, il Fidesz di Viktor Orban, ha acquisito accesso al database contenente i dati dei cittadini, facendo tesoro di una grande mole di indirizzi e numeri e iniziando così una strenua campagna pubblicitaria - o elettorale che dir si voglia - mirata.

Orban, che ha quasi completamente realizzato la svolta autoritaria, sta cercando di indurre i cittadini a mettere a rafforzare il riconoscimento nel suo potere, con metodi decisamente non corretti.

L’acquisizione dei dati, infatti, viola le leggi ungheresi ma non solo. Il regolamento Europeo sulla Protezione dei dati Generale non consente la maggior parte degli usi fatti dal partito - e parrebbe anche dall’opposizione - tra i quali la conservazione delle preferenze elettorali espresse nei turni elettorali precedenti. Si parla addirittura di una lista, riporta The Economist, risalente al 2004, la lista Kubatov.

Tra i dati trafugati e accumulati da Orban ci sarebbero anche quelli sanitari, raccolti grazie a moduli a firma facoltativa durante la campagna vaccinale Covid.

In Italia, la Corte Costituzionale ha appena bocciato i ricorsi contro l’obbligo vaccinale esercitato lo scorso anno come misura straordinaria. La salute, in quanto diritto pubblico e condiviso è stata considerata preminente rispetto ad altri elementi. Senza entrare nel merito della discussione, in tempo di crisi la salute pubblica ha prevalso su altri diritti, anche se nel dibattito non tiene conto delle categorie più marginalizzate, che non hanno avuto accesso ai vaccini nemmeno volendolo, come quelle senza documenti che spesso si sono trovate a scegliere se correre il rischio di essere rintracciati per mettersi al sicuro dalla malattia. Allo stesso modo, la discussione dimentica l’apartheid vaccinale, ovvero l’iniqua distribuzione dei vaccini nel mondo. I diritti sono importanti sempre e solo quando riguardano chi già ha un margine, anche ridotto, di garanzia degli stessi.

Si parla anche in questo caso di diritto al lavoro, alla salute, alla sicurezza personale, al lavoro e anche alla privacy. E qui il nodo tra Italia e Ungheria si stringe, non solo per affinità politica dei governi, ma per un problema sempre più pressante: l’uso dei dati, che diventano strumenti spendibili da aziende e partiti, determinando un’apertura ulteriore della forbisce sociale e l’accrescimento della diseguaglianza. Se le aziende e i partiti sono disposti a contravvenire alle leggi europee per manipolare i comportamenti di consumo e quelli elettorali, infatti, significa che la quantità di persone riconosciuta come rilevante aderisce ancora di più a chi ha potere d’acquisto.

Tempo fa, parlando di uno specifico effetto del fenomeno, mi sono trovata a definire il classismo digitale come una nuova forma di discriminazione umana, ed ecco qui uno dei suoi effetti più atroci: la cancellazione di intere comunità perché, regole di accesso alla cittadinanza alla mano, non è dato loro esprimere un parere formale sull’elettorato passivo.

Prendiamo il caso delle comunità Rom, tra le più stigmatizzate in Europa. In Bulgaria, ignorate dalle campagne vaccinali ma ricoperte di germicida per piante gettato da elicotteri. Ad alcuni il vaccino, ad altri una tetra messinscena che ricorda il lancio del Napalm.

E dunque, i dati di queste persone legittimamente diffidenti nei confronti delle autorità statali e non, hanno un valore di mercato pari a zero, mentre quelli delle persone medio-borghesi risiedenti a Milano sono tutta un’altra cosa. Lo stesso vale per chi possiede la cittadinanza e quindi il potere di segnare con una X chi reggerà le sorti del Paese per un po’.

Il diritto alla salute deve andare di pari passo con la tutela della privacy perché se i dati personali raccolti e usati da Orban hanno modificato l’esito elettorale, allora davvero abbiamo un problema di fuga di dati.

La loro acquisizione a scopo elettorale non solo non è lecita, ma è fortemente antidemocratica. Le informazioni di base, non servono solo a raggiungere il cittadino-elettore, ma anche a inquadrarlo. Una volta compresa la sua categoria di affinità esso assume un valore per chi rispecchia quelle caratteristiche specifiche o le vuole integrare nel proprio messaggio.

Peggio ancora, grazie alle modalità di induzione del comportamento umano, le varie categorie possono essere ottimizzate per realizzare uno scopo preciso, come votare un partito piuttosto che un altro, credendo di essersi informate adeguatamente ma essendo invece finite in camere dell’eco fanatico è troppo spesso imbibite di fake news.

Si è creato un nuovo marketplace in cui la merce in vendita siamo noi, trasformati in forma di dati e ammucchiati su banchetti digitali. E ovviamente, chi non ha un valore al kb in termini di identità digitale non esiste, e con lui le sue istanze.

Il conflitto tra diritti non è una novità, anzi. Ma se in questo contrasto ci dimentichiamo di chi diritti non ne ha e di cosa si potrebbe fare a diritto leso, abbiamo perso in partenza.

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