Diritti

Quello che crediamo di sapere sul genocidio

Nonostante il Giorno della memoria, nonostante la produzione cinematografica, nonostante i memoriali, nonostante i testi e le testimonianze, nonostante tutto, rimaniamo miopi e incapaci di definirlo
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14 agosto 2022 Aggiornato alle 06:30

Le pratiche di genocidio prendono molte forme. Canonizzarle è fondamentale ma comporta un rischio massiccio, perché rischia di escludere alcune sue manifestazioni e di impedire di applicare in maniera pratica quanto sappiamo. E senza questo tassello attivo, non possiamo davvero nulla contro i genocidi.

Siamo stati educati a pensare al genocidio con la G maiuscola, come a un unico evento con una specifica geografia, determinato da precise modalità. E persino, con una vittima riconosciuta è riconoscibile. Anche quando parliamo di questo Genocidio, lasciamo fuori una buona fetta di identità coinvolte. Delle persone Rom e Sinti, a esempio, non si commemora nulla negli spazi istituzionali nonostante la persecuzione e la compressione spaziale nei loro confronti non siano mai finite.

Se la discriminazione è ancora in uso e comunemente accettata si nega la storia tanto quanto il presente.

Narendra Modi e il suo partito si annidano in questo spazio vuoto.

Le politiche del Bharatiya Janata Party (BJP), capitanato dal leader induista, tracciano i perimetri di un’ideologia etno-nazionalista.

L’India di Modi, quella che promette per conquistare voti, è un’India Induista.

Modi e il BJP ripercorrono la frattura storica tra comunità indiana induista e comunità indiana musulmana, dilatandola.

Modi parla di futuro, ma tiene le dita ancorate al passato della sanguinosa partition, la divisione avvenuta tra India e Pakistan nel 1946.

Il Pakistan si era costituito come uno Stato musulmano per i musulmani, indipendente dall’India.

Nelle ore immediatamente successive alla dichiarazione di indipendenza musulmani e induisti hanno iniziato a spostarsi per raggiungere le loro nuove case.

La separazione dei due Stati avvenne tra violenze, stupri, mutilazioni, marchi a fuoco impressi sui corpi delle donne violentate e uccide.

Una mezzaluna o un tridente di Shiva, per rivendicare l’atto. Ci sono foto, tuttora reperibili, dei treni che giunsero alla stazione pieni fino al tettuccio di cadaveri.

Modi conosce la sua storia e sa quanto sia facile promettere di risolvere i problemi di un Paese puntando il dito contro una minoranza - in India ci sono circa 200 milioni di persone musulmane - magari già poco gradita. La religione, dopotutto, rimane una forma di legittimazione politica altissima.

Le violenze sono graduali. Da quelle verbali a quelle fisiche, distribuite sui territori di influenza del BJP.

Le donne musulmane sono le prime a essere colpite dalle forme istituzionalizzate di islamofobia.

Nello stato di Karnataka, l’hijab ban è stato emesso e poi confermato dalla corte, allontanando le ragazze che indossano il velo dalla scuola.

Prima ancora, circa 80 donne musulmane hanno scoperto di essere state inserite nel database di un applicazione che le vendeva, il nome dell’app riprendeva lo slur con cui sono stigmatizzate le donne musulmane in India.

Nella cittadina di Gurgaon vicino alla popolatissima Nuova Delhi, è stato fatto divieto di pregare in luoghi pubblici o negli spazi aperti e di istituire nuove moschee.

Per un fedele musulmano la preghiera da ripetersi cinque volte al giorno è una parte cospicua della prassi religiosa.

Non poter pregare durante l’orario lavorativo limita la persona a due possibilità, non pregare oppure allontanarsi dal luogo di lavoro.

E in questo caso, se il luogo di lavoro è prossimo a casa o alla moschea la scelta risulta ancora fattibile, in caso contrario prevede un’assenza protratta - con annessi risvolti lavorativi - o la rinuncia.

Pregare non è mai stato così difficile. Pochi anni fa era stata avanzata una proposta di legge che consentiva a chi era giunto da Pakistan, Afghanistan e Bangladesh di essere naturalizzato, la proposta era aperta a persone ebree, sikh, jainiste, buddiste e parsi, ma non a quelle musulmane.

L’idea è di far coincidere la cittadinanza con il credo religioso, assimilando l’essere indiani al non avere una certa fede.

Già nel 2016, il BJP aveva mostrato il suo volto ignorando apertamente l’aggressione di un ragazzo ucciso da nazionalisti indù. Un pericoloso silenzio assenso.

Il disegno di Modi, e del BJP, è quello di rendere l’India uno stato induista.

Desecolarizzazione e populismi basati sulle discriminazioni vanno forte in periodi di crisi, macinando consensi ed erodendo i diritti umani tanto quanto i principi democratici.

Nel 2006 le rilevazioni indicavano che meno dell’8% - contro una media nazionale femminile del 21% - delle donne musulmane in India aveva un lavoro, condizione confermata dalla commissione presieduta dal giudice Rajinder Sachar che aveva indicato le cause nell’esclusione sociale, economica e scolastica.

Aljazeera riporta che, le statistiche presentate nel censimento del 2011, indicavano un aumento al 15% della partecipazione lavorativa delle donne musulmane contro il 27% delle donne induiste. Un recente studio di LedByFoundation ha denunciato un pregiudizio diffuso nelle assunzioni.

In poche parole, le donne musulmane non vengono assunte perché tali.

Le violenze, come dimostrano i casi del Madhya Pradesh e dell’ Uttar Pradesh, entrambi stati guidati dal BJP, sono commesse da esponenti della destra nazionalista e rimangono sostanzialmente impunite. Le aggressioni colpiscono venditori e negozianti, un serio problema visto che circa il 46% dei musulmani lavora in proprio, ma ciò che allarma maggiormente è la chiara evidenza che la comunità musulmana indiana è la più povera del subcontinente.

Genocide Watch è una Ong che si occupa di monitorare, prevenire, fermare e punire i genocidi. È la stessa organizzazione che a suo tempo aveva dato l’allarme capendo quanto sarebbe accaduto in Rwanda.

Ebbene, nel 2021 ha ufficialmente definito l’India a rischio di genocidio e successivamente dichiarato l’emergenza genocidio. La persecuzione religiosa si è innestata nelle strutture e nei progetti di partito, la violenza settaria è divenuta istituzionale e condonabile.

Il genocidio è annoverato tra i crimini contro l’umanità, considerato tra essi il più efferato, esso è definito nella Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio del 1948 - che l’India ha firmato nel ‘49 e ratificato nel ‘59 - come “atto commesso con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso.”

Segue poi una canonizzazione in più punti, di cui all’articolo II, in cui sono annoverati gli atti commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso in quanto tale. Cosa che può verificarsi mediante uccisione di membri del gruppo, lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo, sottoponendo deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale, applicando misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo e attivando il trasferimento forzato di bambini da un gruppo a un altro.

Manca a tutti gli effetti il riconoscimento del genocidio culturale. In un sistema governato da Stati che si definiscono in base al monopolio della forza esercitato entro confini, quindi per antagonismo rispetto all’esterno, si può ritenere che non riconoscere il genocidio culturale fosse una strategia per preservare le azioni assimilazioniste interne, protette sempre sotto l’egida della sovranità statale.

Il caso dell’India, però, ci mostra elementi persino più drammatici.

Pur in compresenza di elementi chiaramente riconducibili al genocidio, la comunità internazionale non agisce.

Un leitmotiv in sottofondo conduce alla ragione più probabile ed evidente. Dopotutto, seguendo i principi della convenzione, non risulta genocidio quello subito dai Rohingya in Birmania, come pure quello patito dagli Uiguiri nello Xinjiang o quello con cui possono essere definite le azioni di Israele negli ultimi 74 anni?

E se a questo aggiungiamo la rampante e istituzionalizzata islamofobia europea e statunitense, non risulta forse chiaro il perché?

Appare evidente che, se indirizzata in funzione delle discriminazioni socialmente accettate, la definizione di genocidio risulta essenzialmente vuota.

Nonostante tutto quello che crediamo di sapere a riguardo, nonostante il giorno della memoria, nonostante la produzione cinematografica, nonostante i memoriali, nonostante i testi e le testimonianze, nonostante tutto, rimaniamo miopi e incapaci di definirlo.

Ciò che consente i genocidi non è solo l’odio istituzionalizzato, ma il silenzio di fondo, l’accettazione collettiva, quello che Harendt spiega nel ricchissimo La banalità del male.

Il male è banale perché è ordinario, comune, quotidiano.

Il male del genocidio è ignorato perché ordinario, abituale e, principalmente, perché colpisce altre persone.

L’islamofobia europea, che si manifesta in pregiudizi cittadini tanto quanto nelle leggi che vogliono impedire l’accesso in determinati luoghi alle persone che indossano l’hijab o nei provvedimenti e negli impedimenti che non consentono l’erezione di moschee e luoghi di culto per le persone musulmane europee e residenti nell’Ue, è la nostra porzione di ordinario.

Quella che ci permette di credere che sia normale che un Paese intero, la Palestina, possa essere smembrato e compresso, bombardato, occupato, spopolato e chiuso ai propri nazionali.

La stessa che ci evita di leggere su tutte le testate che in India il consenso si compra a suon di etno-nazionalismo islamofobo, che ci consente di continuare a comprare i prodotti in 100% cotone di Muji nonostante quel cotone provenga dal lavoro di persone uigure schiavizzate, che ci rende, in buona sostanza, non interessati a riconoscere i genocidi quando accadono.

Le definizioni dovrebbero essere utili a circoscrivere fatti o eventi, a dare loro una collocazione comunicabile. Questa funzione viene meno nel momento in cui le definizioni sono viziate nella loro fruibilità, ovvero quando il loro riconoscimento è vincolato al vettore. Se la parola genocidio è una prerogativa occidentale non ce ne facciamo nulla, se è un termine che possiamo usare solo per il passato, allora non ci insegna nulla, se non ci fa così orrore da fermarci prima che siano compiuti, certamente è una parola che non abbiamo compreso.

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