Economia

La fattibilità dell’impossibile

Basterebbe investire con lungimiranza il 2% del PIL globale ogni anno per risolvere la crisi climatica, dice lo storico Yuval Noah Harari. Ma al di là della cifra, i governi si dividono su chi debba finanziare il processo
Il grande secolo (1954), René Magritte
Il grande secolo (1954), René Magritte
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24 giugno 2022 Aggiornato alle 06:30

Quanto costa riorganizzare la produzione mondiale in modo da azzerare le emissioni di gas-serra? Quanto costa impedire un cambiamento climatico catastrofico?

Lo storico Yuval Noah Harari si sta dedicando a promuovere l’idea che l’investimento necessario si aggiri intorno al 2% della ricchezza prodotta annualmente a livello globale. Andando a guardare i dati della Banca Mondiale, si scopre che si tratta di qualcosa come 1,7 mila miliardi di dollari.

È tanto, ma non un’enormità, visto quello che c’è in gioco. Non solo: è un investimento, dunque genera innovazione, ricerca, produzione, consumo, insomma, crescita. Batterie, pannelli solari, reti di distribuzione elettrica intelligenti.

Inoltre, si risparmierebbero cure sanitarie per chi si ammala a causa dell’inquinamento, costi di trasferimento di persone che abitano in luoghi che un cambiamento climatico catastrofico renderebbe inabitabili, e altre sofferenze che in generale ammontano a circa il 7% del PIL globale.

Si può mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi investendo il 2% del PIL mondiale. Non è un sacrificio: è una definizione corretta delle priorità.

Del resto, gli Stati Uniti hanno investito il 36% del loro PIL per vincere la Seconda Guerra Mondiale e hanno impiegato il 3,5% del loro PIL per salvare le compagnie fallimentari durante la crisi finanziaria del 2007-2008.

Comprare l’Amazzonia costerebbe in tutto 800 miliardi e salverebbe un polmone fondamentale del pianeta: le compagnie fallimentari erano “troppo grandi per fallire”, ma lo è anche l’Amazzonia, dice Harari.

Per rispondere alla crisi economica causata dalle politiche messe in opera per ridurre la velocità di contagio del covid-19, i governi del mondo hanno speso il 14% del loro PIL. Tra l’altro attualmente, l’1,2% del PIL mondiale va in sprechi alimentari, mentre il 2% circa è evaso dalle grandi compagnie multinazionali e nascosto nei paradisi fiscali.

Del resto, ogni anno, i governi investono 500 miliardi all’anno in sussidi diretti alla produzione di combustibili fossili.

Harari ha le sue ragioni. I soldi ci sono. Non ci vuole un miracolo per salvare l’umanità dalle conseguenze della sua antica mancanza di lungimiranza. Ci vuole una innovativa conquista di lungimiranza.

Purtroppo questa non è ancora all’orizzonte. I rappresentanti delle nazioni dell’Onu riuniti a Bonn nei giorni scorsi per preparare il prossimo COP27 di Sharm el-Sheikh si sono trovati imbrigliati in una discussione labirintica. Sapendo che per salvare l’umanità dall’emergenza climatica occorreranno investimenti, i politici a Bonn si sono accapigliati su chi li debba finanziare.

I Paesi del sud del mondo sostengono che se i responsabili dell’inquinamento sono i Paesi sviluppati, allora sono questi Paesi che si devono sobbarcare il finanziamento degli investimenti necessari a risolvere il problema. I Paesi sviluppati appaiono riluttanti.

Ma considerando che i Paesi sviluppati - per esempio quelli che appartengono all’Ocse - producono il 62% del PIL mondiale, dovrebbero comunque investire una quota almeno pari di quel 2% del quale parla Harari. Se a questi Paesi si aggiunge la Cina, si arriva al 78% del PIL globale.

Insomma, 39 Stati, su quasi duecento, sarebbero responsabili dell’80% degli investimenti nel caso che si limitassero al loro 2% di competenza, ma nel caso si volessero prendere in carico anche l’altro 20% questo equivarrebbe a 340 miliardi. Molto, ma non impossibile. Anche considerando la crescita economica che ne deriverebbe.

Evidentemente le lobby petrolifere sono ancora tanto forti da convincere i governi occidentali a investire ancora 500 miliardi l’anno in sussidi alla produzione di combustibili fossili. E a non cogliere l’occasione della moltiplicazione per 10 dei prezzi del gas per mettere in atto politiche razionali ma energiche per abbandonare il più velocemente possibile quella roba.

Quando i governi europei dicono ai cittadini che si stanno occupando di risolvere il problema del gas per il prossimo inverno, dovrebbero accompagnare quella comunicazione con la notizia di quanto investono per rendere i loro Paesi indipendenti dal gas il più presto possibile. Non costerebbe nulla e renderebbe tutto più comprensibile.

Certo, per non aumentare le disuguaglianze mondiali, si dovrebbero investire quei soldi in modo da portare crescita anche dove ce n’è più bisogno probabilmente. Ma questa è ancora un’altra storia. E richiede un altro livello di lungimiranza.

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