Diritti

Una donna su tre si vergogna di parlare di mestruazioni in pubblico

Secondo il sondaggio dell’azienda Initial, benché la situazione stia leggermente migliorando, esiste ancora un forte stigma legato al ciclo, tanto che alcune ragazze sono vittime di “Period Shaming”
Alessia Ferri
Alessia Ferri giornalista
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15 aprile 2024 Aggiornato alle 09:00

Nelle pubblicità degli assorbenti (quasi mai tra l’altro chiamati con il loro nome), fino a pochissimo tempo fa, il sangue mestruale non c’era. Al suo posto un non meglio identificato liquido blu, forse fuoriuscito da un’entità aliena, chi può dirlo. E le donne protagoniste degli spot erano tutte supereroine, impegnate in imprese al limite proprio nei giorni delle mestruazioni, dalle quali uscivano ovviamente vincitrici, grazie al loro asso nella manica. Letteralmente nella manica, visto che gli assorbenti da sempre è lì che si nascondono quando bisogna cambiarsi lontano dalle mura domestiche e il senso di vergogna cresce a ogni passo che separa dall’intimità del bagno.

Queste e altre assurdità, comunicative e non, hanno alimentato negli anni uno stigma nei confronti di tutto ciò che ruota intorno al ciclo, diventato sempre più grande. Adesso nelle pubblicità il sangue sembra finalmente sangue e, soprattutto sui social network, sono diversi i progetti creativi che puntano a scalfirlo. La strada però appare ancora lunghissima, almeno stando a quanto emerso dalla ricerca commissionata da Initial, azienda specializzata in servizi e soluzioni per l’igiene e il benessere fuori casa, in occasione del lancio di Dignity, servizio promosso con la campagna “Al tuo fianco, ciclo dopo ciclo”, che prevede l’installazione di distributori per l’erogazione di assorbenti all’interno dei bagni femminili di aziende, plessi scolastici e uffici pubblici e la loro fornitura periodica.

Secondo il report, 1 donna su 3 prova imbarazzo a parlare pubblicamente del ciclo e ad ammettere di avere le mestruazioni in presenza di altri. Il 72% delle intervistate ha dichiarato di non sentirsi libera di farlo, anche se in questo caso esistono alcune distinzioni in relazione all’età che fanno sperare in un futuro più libero da assurde costrizioni morali: tra le ragazze di 16-18 anni, infatti, il 61% ne parla apertamente. Ragazze però interessate da un fenomeno tutt’altro che positivo, ovvero il “Period Shaming”, una forma di bullismo legata alla manifestazione di possibili disagi derivanti dal ciclo mestruale. Tra le appartenenti alla Gen Z interpellate, il 27% ha subito battute inerenti al ciclo, provenienti nel 65% da uomini e nel 38% da donne.

Anche il luogo in cui si abita sembra incidere sul modo di vivere le mestruazioni, al punto che chi si trova in grandi città altamente urbanizzate (con una popolazione superiore a 250.000 abitanti) sembra più predisposta a non considerare il ciclo come un tabù.

E in questo scenario a dir poco sconfortante come se la cavano gli uomini? Non benissimo a quanto pare. Oltre il 26% degli intervistati ha ammesso di non essere a proprio agio con il ciclo femminile; il 17% di non avere mai trattato l’argomento e il 9% di aver sempre evitato di discuterne. Una situazione che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, insiste anche tra i più giovani, con il 54% del totale degli intervistati che si dichiara in imbarazzo a parlare di mestruazioni, oppure non l’ha mai fatto.

Il campione preso in considerazione da Initial nella sua indagine si è espresso anche riguardo le questioni economiche legate al tema e in particolare sulla Tampon Tax. In Italia dal 1° gennaio 2024 l’Iva su assorbenti e altri presidi igienico sanitari necessari per far fronte alle mestruazioni è passata dal 5% al 10%, una misura considerata ingiusta dall’82% delle donne intervistate e dal 71% degli uomini, concordi sul fatto che alzare il costo di questi prodotti significa renderli non accessibili a tutte e alimentare il fenomeno del Period Poverty, sempre più insistente anche nel nostro Paese.

La spesa mensile per l’acquisto degli assorbenti è infatti pari a circa €10 al mese a persona, una cifra considerata molto alta per le giovanissime (30%) e che pesa considerevolmente sul paniere della spesa, soprattutto delle donne che risiedono nel Sud Italia e nelle Isole (76%).

Quello della povertà mestruale è un problema globale che colpisce coloro che non hanno accesso ai prodotti mestruali sicuri e igienici di cui hanno bisogno e/o che non sono in grado di gestire il proprio ciclo con dignità, a volte proprio a causa dello stigma che vi ruota intorno. Questo fenomeno si traduce in problemi e disagi di vario genere, da quelli sanitari a quelli sociali.

Secondo lo studio condotto da ActionAid nel 2021, a esempio, nel mondo 1 ragazza su 10 perde giorni di scuola perché non ha accesso agli assorbenti o per la mancanza di bagni; nell’Africa Sub-sahariana si tocca il picco del 20% dell’intero anno scolastico. In Kenya, il 50% delle ragazze in età scolastica non ha accesso agli assorbenti e in India il 12% di donne in età mestruale non ha la possibilità economica di acquistare prodotti per gestirlo. Quando ciò accede, le donne sono costrette a tenere lo stesso assorbente o tampone per tanto tempo, correndo il rischio di infezioni gravi, o di doversi prostituire per reperire i soldi necessari per acquistarne di nuovi.

Ma la Period Poverty non colpisce solo i Paesi più poveri. Uno studio condotto negli Stati Uniti nel 2023 stima che 16,9 milioni di donne in età fertile vivano in povertà e fatichino a provvedere a questo evento fisiologico, con conseguenze gravissime che spaziano dalla contrazione di infezioni del tratto urinario a una maggiore probabilità di incorrere in problemi di salute mentale.

E in Italia? Dati ufficiali non esistono ma sicuramente la situazione non è rosea e proprio per questo negli ultimi anni sono nate sempre più spesso iniziative spontanee, soprattutto nelle scuole, di aiuto verso coloro per cui anche il costo di un assorbente a fine mese può fare la differenza. La formula è il più delle volte molto semplice: nei bagni vengono posizionati alcuni contenitori, chi ha un assorbente in più lo lascia, chi uno un meno lo prende.

Forme di solidarietà lodevoli ma che non dovrebbero essere necessarie, perché la presa in carico della salute mestruale spetterebbe alle Istituzioni, che dovrebbero anche impegnarsi a favorire il fatto che lo stigma legato al ciclo non esista più.

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