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“Dentro. Una storia vera, se volete” racconta la verità degli abusi nascosti contro le donne

Lo spettacolo teatrale “non è un lavoro sulla violenza - ha spiegato la regista Giuliana Musso, intervistata da La Svolta - ma sull’occultamento della violenza”: «Il primo passo da fare, che non è affatto scontato, è saperla riconoscere»
Giuliana Musso
Giuliana Musso
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6 marzo 2024 Aggiornato alle 11:00

Quando ci si alza dalla poltroncina di velluto rosso una volta terminato Dentro. Una storia vera, se volete, di Giuliana Musso, ci si sente “scomodi”, colmi di emozioni profonde che vanno metabolizzate.

Giuliana Musso, in scena insieme a Maria Ariis, non ha avuto paura di rappresentare l’indicibile, offrendo una visione a 360 gradi. “Dentro è la messa in scena del mio incontro con una donna e con la sua storia segreta. La storia di una verità chiusa dentro ai corpi e che lotta per uscire allo scoperto. Unesperienza difficile da ascoltare. Una madre che scopre la peggiore delle verità. Una figlia che odia la madre. Un padre innocente fino a prova contraria. E una platea di terapeuti, consulenti, educatori, medici, assistenti sociali, avvocati che non vogliono sapere la verità”, ha spiegato l’artista (premio Hystrio 2017 alla drammaturgia e premio Anct 2021).

“In tutte le vicende di abuso sui minori che io ho conosciuto per voce delle vittime nessun colpevole è mai stato condannato - ha aggiunto Musso - La violenza sessuale è un segreto che permane tutta una vita dentro alle case, dentro agli studi dei medici, degli psicoterapeuti o degli avvocati, in quelle dimensioni private in cui le vittime possono restare confinate senza venire riconosciute (…) Storia antica quanto il patriarcato: narrazioni che sono strategie di rimozione e occultamento, prime tra tutte la normalizzazione stessa dell’abuso e la colpevolizzazione della vittima. (…) Da sempre, pur di salvare l’ordine dei padri, costruiamo impalcature concettuali che fanno perdere consistenza alla realtà dei traumi e alla voce dell’esperienza”.

Musso ha raccontato come si sia dedicata all’ascolto di circa un centinaio di persone, dal 2001: «Registro e sbobino tutto, anche quando sembra inutile perché anche dentro a quel momento, riascoltando, scopri che c’era qualcosa di particolare, di umano, di forte o scopri che c’è un modo di dire della parola orale che può diventare una buona sintesi poetica. Non ho mai scritto per una scrittura fine a se stessa, l’ho sempre fatto solo per recitare perciò ho sempre cercato una parola che avesse un forte riverbero nel corpo, nel ritmo, nel respiro, nell’immagine che fa scaturire».

“Dentro non è teatro d’indagine, è l’indagine stessa, quando è ancora nella vita, la mia stessa vita - ha spiegato l’artista - Dentro non è un lavoro sulla violenza ma sull’occultamento della violenza. Dentro è un piccolo omaggio teatrale alla verità dei figli”.

Quanto questo entrare “dentro” una vicenda che può toccare tutti e tutte è stato devastante?

Non è così devastante per me stare vicino alle storie degli altri. Mi viene abbastanza spontaneo. C’è una dimensione della condivisione che genera profondamente benessere perché l’atto dell’ascoltare la storia dell’altro salva anche me. Io ascolto nel modo in cui vorrei essere ascoltata.

Come si è approcciata al lavoro teatrale?

Una cosa come questa, forse 20 anni fa o ancor più 30 anni fa, quando ero ancora più giovane, forse non l’avrei ascoltata nello stesso modo e soprattutto non sarei riuscita a raccontarla così. Per me la condivisione non è solo una tecnica di ricerca e scrittura, è anche un modo di stare al mondo. Significa prendersi uno spazio, un tempo dove le vite degli altri ci toccano.

Coerente con tutto ciò che ha affrontato nel suo percorso professionale e in questo spettacolo: un tabù e un dolore del genere porta a farsi delle domande da madre?

Innanzitutto porta a farti delle domande come figlio. Quella madre è stata figlia di una madre violenta nei modi, non abusante fisicamente, ma psicologicamente. In primis va riconosciuto come molto importante il proprio vissuto eventuale di sofferenza: quella madre faceva fatica a provare certe emozioni perché fin da piccola le sono state censurate. Nessuno ha avuto compassione di lei quando era bambina, si normalizzava la violenza e quindi da una parte i comportamenti ambigui del marito e dall’altra la rabbia della figlia, per lei, erano difficilmente decodificabili nel corpo e nelle emozioni. Il primo interrogativo che, secondo me, ci pone questa storia è quanto noi riconosciamo la nostra voce interiore, autentica, sincera, profonda nelle situazioni che attraversiamo nella vita. Quanto noi riconosciamo le forme della violenza, del sopruso quando le incontriamo? Per quanto riguarda il rappresentare sul palcoscenico una storia (ricordiamoci che noi “giochiamo”) le mie lacrime hanno lo stesso valore delle risate, sono benedette perché escono. Quando non escono è il problema. L’empatia per l’altro arriva perché ho facoltà di sentire in generale. Se non ho compassione per me non posso averla verso gli altri e nemmeno per una figlia.

L’attitudine all’ascolto è un punto importante che emerge durante lo spettacolo: lei dimostra che questo non è così scontato.

Non è scontato rispetto a un tabù così grande che è la violenza dei “padri”. Persino Freud arriva ad auto censurare il tema dell’abuso perché è irricevibile da parte della società scientifica per la sua epoca. Rompere il tabù, andare oltre, è un atto sempre sovversivo che suscita risposte anche molto violente. Io ho sempre trovato dei teorici che sono stati per me dei punti di riferimento, i quali mi hanno aperto una visione, spiegato il funzionamento di alcuni meccanismi. Quasi sempre queste figure hanno vissuto sulla loro pelle la fatica dell’eresia. La posizione della denuncia è rigida, fissa, dove c’è un giudizio dicotomico molto forte (qualcosa è bene e qualcosa è male) a me piace la comprensione, avere una visione. In questo caso è più che sufficiente avere una visione di quanto difficile sia anche per chi, intorno a queste vicende di violenza intrafamiliare, ha un ruolo professionale, andare fino in fondo, leggere i sintomi, le prove. Se non ci chiediamo perché sia così difficile non ne potremmo mai uscire, non cambierà.

Vivo di perché e vorrei che tutti ci chiedessimo perché c’è ancora la guerra, perché ancora la vita delle persone viene collocata su piani di valore diversi, non basta essere persone viventi. Perché l’amore è ancora un premio? Mi piace che il teatro possa formulare delle domande piuttosto che dare delle indicazioni prescrittive. Va anche detto che quello che gli altri ci offrono dipende molto da quanto siamo disposti a ricevere; molto spesso ci sentiamo vittime di una mancanza da parte degli altri e non vediamo che forse siamo noi che non riusciamo ad accogliere.

Per fare un’autocritica si dovrebbero avere degli strumenti…

Sì e credo che il teatro, oggi, possa offrire degli strumenti a tutti noi perché è uno dei pochi linguaggi che ci sono rimasti che integrano la parte razionale dell’analisi intellettuale con il sentimento inteso come un sentire nel corpo, avere percezioni fisiche. L’una parte senza l’altra non è sufficiente a comprendere. Il pensiero senza sentimento non ci ha portato tanto lontano. La pietà, la compassione possono essere stimolate dall’arte del teatro. È un elemento essenziale che ci sta tanto mancando, il sentire insieme all’altro è estremamente sovversivo, rompe le regole del potere, dell’uso della violenza come principio di giustizia, e rompe le regole della gerarchizzazione degli esseri umani. Per tantissimo tempo, tutta la retorica sull’amore come sentimento non la capivo. L’ho capito solo quando, grazie a Carol Gilligan (psicologa statunitense) e ad altre esperienze dirette di ascolto, ho compreso che fosse la criptonite del potere. Cordelia dice a suo padre: «ti amo come un padre» e per questo motivo viene punita. Mi chiedevo come mai. Non è pazzo, è che quell’amore di Cordelia annulla l’identità di quell’uomo fondata sul proprio potere, lo fa diventare semplicemente un uomo. Estendendo il concetto: l’avere dei sentimenti è un atto rivoluzionario.

Sembra proprio che, a volte, ci si debba vergognare di avere dei sentimenti in questa società.

Perciò il teatro è potentissimo: aiuta una comunità intera a condividere le emozioni. Lo fa l’arte in generale, ma il teatro è l’arte della relazione tra corpi viventi in un tempo presente unico, nella diretta del sentimento di ciò che accade mentre accade.

Freud si è auto censurato ma era un’epoca diversa, anni differenti rispetto a oggi: ciò che scandalizza e che si avverte attraverso lo spettacolo è il fatto che tutto ciò possa essere indicibile oggi.

Esistono altri tabù che incontriamo più spesso e non riusciamo ancora a spostare. Il primo è quello della guerra: ci stiamo ancora dicendo che con tutta la nostra intelligenza, know how e scienza, chi vince una guerra ha ragione, chi è più forte, ha ragione. Siamo ancora a questo livello. Dire siete stupidi, pazzi quando decidete di fare le guerre, quando non riuscite a bloccare l’escalation della violenza, è un tabù. Si ribatte: “Eh però l’altro è stato aggredito”. È la stessa cosa che accade nel tabù della violenza sessuale: “Eh però la vittima l’ha provocato”. Lo spettacolo non parla solo dell’abuso intrafamiliare, ma proprio del meccanismo del tabù, di ciò che non vogliamo vedere per proteggerci da una verità che farebbe crollare un sistema di valori.

Uno dei capitoli di cui si compone la pièce si intitola Dentro la bella casa, evidenziando l’apparenza per poi andare in fondo fino al precipizio, mettendo anche in scena la differenza tra le parole, dalla censura al tabù.

Questa è una parte che credo abbia molto a che vedere col carattere personale, mi hanno sempre detto fin da quando ero bambina che ero tanto mentale. Ho avuto un’infanzia con degli affetti poco affettuosi. Per darmi una ragione dei conflitti che sentivo dentro di me ho cercato di attivare anche questi strumenti (ne avevo bisogno per me). L’aspetto teorico è un grande strumento, ma va unito ad altro. Nella ricerca cerco di generare l’incontro tra queste due dimensioni: i dati, l’analisi tecnico-scientifica e l’esperienza reale, concreta vissuta dalle persone con delle domande sincere e non retoriche.

Temi come quelli che ha affrontato cambiano la vita a ogni singolo componente della famiglia e da spettatore si avverte la catarsi.

Credo che quando il teatro ci porta a un punto di emozione molto profondo nel corpo, lì avviene questo passaggio liberatorio, questa crescita della propria consapevolezza, attraverso il sentire. Ed è il motivo per cui così tante persone, in un’epoca di stimoli più immediati e molteplici proposte, tornano a vestirsi, anche col cattivo tempo, per andare in un teatro. Personalmente se non ho niente da dire, sto zitta, aspetto, mi do il tempo di una motivazione perché per me è fortissimo il bisogno di autenticità di testimonianza.

Accennava ai “padri” e ultimamente, in particolare rispetto alla violenza di genere, si è parlato molto del patriarcato. Come si può sradicare?

Il primo passo da fare, che non è affatto scontato, è saper riconoscere la violenza. Pensiamo a storie fondative della nostra cultura: Abramo e Isacco. Dio stesso, per mettere alla prova la fede del primo, gli ordina di sacrificare il proprio figlio. Noi ci concentriamo sulla fede, su Abramo, ma non sull’atto di violenza. Un altro esempio possiamo prenderlo dalla storia di Edipo: ci concentriamo sul fatto che lui, a sua insaputa, uccida il padre e poi stia con la madre; ma di Laio, il padre di Edipo, che ordina l’uccisione del neonato, cosa siamo in grado di dire? Tutti questi atti fondativi di violenza sui figli sono stati normalizzati profondamente nelle nostre coscienze e, ritornando alla questione iniziale, è il motivo per cui concepiamo le guerre… Perché da qualche parte, dentro di noi, questa cosa è normale. Ritengo che per il nostro benessere collettivo abbiamo sempre più bisogno di uomini miti e di donne coraggiose perché il corpo delle donne può essere un ottimo strumento (dal punto di vista cognitivo) per dare importanza alla cura, alla tutela, alla protezione e quindi a non normalizzare la violenza; ma abbiamo bisogno del sostegno degli uomini per farlo. Ci si salva insieme.

Le date della tournée di Dentro sono:

7 marzo, Teatro delle Ali di Breno

8 marzo, Teatro Giacosa di Ivrea

La produzione La Corte Ospitale (coproduzione Operaestate Festival Veneto, con il sostegno di MiC e Regione Emilia-Romagna) sta organizzando anche una tournée in America e ci si augura che questo spettacolo continui a girare incontrando quante più persone possibili.

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