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Usa: le leggi contro la moderazione sui social sono anticostituzionali?

La Corte Suprema dovrà valutare se le decisioni di Texas e Florida, che vorrebbero impedire il controllo dei contenuti sulle piattaforme, violano il Primo Emendamento della Costituzione. Il verdetto è atteso per giugno
Credit: cottonbro studio 
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
29 febbraio 2024 Aggiornato alle 12:15

Le leggi di Texas e Florida sulla moderazione dei contenuti dei social media violano il Primo Emendamento? Questa è la domanda a cui deve rispondere la Corte Suprema, chiamata a deliberare nei casi NetChoice v. Paxton e Moody v. NetChoice. In ballo non c’è solo la costituzionalità delle leggi, ma la sentenza potrebbe stabilire regole di base per la tutela della libertà di parola online e rappresentare un punto nodale per il futuro di internet.

La legge del Texas vieta alle piattaforme social con più di 50 milioni di utenti attivi negli Stati Uniti di censurare “un utente, l’espressione di un utente o la capacità di un utente di ricevere l’espressione di un’altra persona” e impedirebbe ai servizi online di impegnarsi nella moderazione dei contenuti tranne che in alcuni casi specifici.

La legislazione della Florida ha invece cercato di limitare le grandi piattaforme con “ricavi lordi annuali superiori a 100 milioni di dollari” e “almeno 100 milioni di partecipanti mensili a piattaforme individuali a livello globale” dal fare de-platforming intenzionale nei confronti di un candidato politico (ovvero, limitare la sua libertà di parola sui social e/o siti web). Insieme ad altre disposizioni sugli appalti pubblici, la legge mira a classificare le grandi piattaforme di social media come “vettori comuni”. L’ex Presidente Donald Trump e candidato alle Primarie per i Repubblicani ha presentato una memoria in difesa della legge.

Le 2 leggi, nessuna delle quali è ancora entrata in vigore, sono nate dalle preoccupazioni repubblicane sulla presunta censura delle voci conservatrici da parte delle piattaforme, soprattutto dopo il ban di Trump dai social media dopo l’assalto al Campidoglio. «La libertà di parola è sotto attacco in Texas - aveva dichiarato il governatore repubblicano del Texas Greg Abbott al momento della firma del disegno di legge - C’è un movimento pericoloso da parte di alcune società di social media per mettere a tacere idee e valori conservatori. Questo è sbagliato e non lo permetteremo». Nei documenti del tribunale, gli avvocati del Texas e della Florida hanno affermato che le piattaforme dei social media discriminano le opinioni conservatrici.

A contestarle sono stati i Big dell’industria tecnologica NetChoice e Computer & Communications Industry Association (Ccia), i cui membri includono la società madre di Facebook e Instagram, Meta, Google di Alphabet (che possiede YouTube), Snap, proprietario di TikTok e Snapchat. «Non c’è niente di più orwelliano del tentativo del Governo di dettare quali punti di vista distribuire in nome della libertà di espressione - ha affermato Matt Schruers, presidente della Ccia - Ed è proprio questo il problema in questo caso».

La questione sollevata è se queste leggi violino i diritti di libertà di parola ai sensi del Primo Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti. Il Primo Emendamento (e su questo decideranno i giudici con la loro sentenza, attesa per la fine giugno) protegge la discrezione editoriale delle piattaforme di social media e vieta ai Governi di costringere le aziende a pubblicare contenuti contro la loro volontà o no?

La domanda è più ampia e interroga la concezione stessa dei social media: piattaforme aperte a tutti senza filtri o, come librerie e giornali, luoghi che modificano e curano le informazioni e per questo ottengono il più alto livello di protezione del Primo Emendamento?

Durante il dibattimento orale di fronte alla Corte Suprema, durato oltre 4 ore, il giudice Samuel Alito ha chiesto a NetChoice di definire il termine “moderazione dei contenuti”, chiedendo se il termine fosse «qualcosa di più di un eufemismo per censura». «Se il Governo lo fa, allora la moderazione dei contenuti potrebbe essere un eufemismo per la censura - ha risposto Paul Clement, uno degli avvocati che rappresentano NetChoice - Se lo fa un privato, la moderazione dei contenuti è un eufemismo per la discrezione editoriale».

Un discrezione che comprende la possibilità di bloccare o rimuovere contenuti o utenti, dare priorità ad alcuni post rispetto ad altri o includere contesto aggiuntivo; senza questa discrezione, dicono le aziende, le piattaforme sarebbero invase da spam, bullismo, estremismo e incitamento all’odio. Una previsione che appare estremamente realistica, almeno se guardiamo l’aumento (registrato in momenti diversi e da diversi studi) di hate speech e contenuti offensivi su X dopo l’acquisizione da parte di Elon Musk e l’allentamento delle regole di moderazione.

La giudice Elena Kagan ha chiesto se le piattaforme affermino di avere il diritto categorico di bannare gli utenti per ciò in cui credono, per decidere, a esempio, che quando si tratta di antisemiti, «non permetteremo loro nemmeno di pubblicare video di gatti». Clement ha risposto di sì. Se «sei un noto antisemita, non vogliamo che tu partecipi a questa conversazione», ha detto.

I giganti dei social media si appoggiano in parte su un caso della Corte Suprema del 1974, conosciuto come Miami Herald v. Tornillo. In quell’occasione, il Governo della Florida aveva ha cercato di costringere il quotidiano a pubblicare editoriali che non voleva pubblicare. Allora, l’Alta Corte si schierò dalla parte dell’Herald.

“Proprio come il Governo non può dire al Miami Herald quali editoriali pubblicare o alla Msnbc quali interviste trasmettere, il Governo non può dire a Facebook o YouTube quale discorso di terzi diffondere o come diffonderlo”, hanno scritto gli avvocati che difendono le piattaforme di social media.

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