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Chi ha paura della plastica?

Nelle scuole Usa si moltiplicano le iniziative volte a convincere studenti e studentesse che la plastica non sia un problema. Un’inversione di marcia netta rispetto a tutto quello che gli ambientalisti predicano da anni
Credit: SHVETS production
Tempo di lettura 6 min lettura
2 marzo 2024 Aggiornato alle 20:00

Leo è un adolescente che un giorno torna a casa da scuola affranto. Quando la sorella Layla gli chiede quale sia il problema lui le racconta che la sua insegnante ha spiegato alla classe quanto sia importante diminuire il consumo di plastica. Ma la plastica è dappertutto, si angoscia Leo. E se è pericolosa perché viene usata per così tanti oggetti?

Layla non sa cosa rispondergli e così gli propone un viaggio indietro nel tempo, per conoscere Leo Baekeland, l’inventore della bachelite, la prima plastica completamente sintetica. Lo scienziato spiega infatti ai due ragazzi che prima la plastica era di origine naturale, e per produrla venivano usati gusci di tartaruga, zanne di elefante e altri materiali di origine animale. La sua invenzione invece ha permesso la creazione di un materiale robusto e duraturo che non uccidesse gli animali e che si potesse ottenere a basso costo.

«Ma la plastica dura troppo, non si degrada facilmente e in più per crearla vengono usati i combustibili fossili», replica Layla. Baekeland si indigna, protesta dicendo che lui ha inventato la bachelite non certo pensando che le persone l’avrebbero usata per oggetti di singolo uso (come i sacchetti o le bottigliette usa e getta) e afferma: «i combustibili fossili sono economici e abbondanti, per fortuna! Così non dobbiamo usare sostanze di natura animale e costruire cose che migliorano la vita di tutti, non solo dei ricchi».

Questa non è una barzelletta, anche perché non farebbe ridere. E neanche il copione di un nuovo film negazionista. È invece la trama di uno dei tanti video “educativi” presenti sulla piattaforma statunitense PragerU che, come si legge nella homepage ha lo scopo di “promuovere i valori americani e offrire un’alternativa gratuita all’ideologia di sinistra che permea la cultura, i media e l’ educazione”.

Dal momento che secondo quanto riporta il Washington Post questa piattaforma è finanziata principalmente da due miliardari texani fondatori dell’Assemblea di Yahweh dove si predica che il cambiamento climatico è volere di Dio, si potrebbe pensare che il fatto sia circoscritto a una nicchia di seguaci.

In realtà, scrive lo stesso quotidiano, il problema della disinformazione rispetto alla plastica e ai suoi effetti deleteri sull’ambiente è molto diffuso negli Stati Uniti, e gli schieramenti pro e contro il materiale hanno scelto le scuole pubbliche come terreno di scontro privilegiato.

Nei licei statunitensi, racconta il Washington Post, sono sempre più frequenti programmi educativi (si fa per dire) creati con l’obiettivo di migliorare la reputazione della plastica, in modo da renderla più accettabile e perfino interessante.

È il caso di PlastiVan, un programma durante il quale “evangelisti della plastica decantano le meraviglie dei polimeri al loro giovane pubblico”. L’iniziativa, promossa dalla Society of Plastic Engineers (Inspiring plastic professionals, si legge appena sotto il logo), un’organizzazione che mette in contatto esperti e stakeholders nella filiera della plastica, e finanziata, manco a dirlo da aziende legate al fossile (come la brasiliana Braskem) intende “cambiare la percezione della plastica una classe alla volta”, come recita il suo motto.

L’obiettivo di PlastiVan è quello di “entusiasmare gli studenti per le opportunità offerte dal settore della plastica, stimolare la curiosità scientifica e aumentare la conoscenza dei contributi che la plastica ha portato alla vita moderna”. Obiezioni sulla tossicità del materiale e preoccupazioni sul degrado ambientale che l’utilizzo sconsiderato di plastica causa sono liquidate sostenendo che colpa non è della povera plastica che da secoli ci rende la vita molto più facile, ma dell’utilizzo che se ne è fatto. Del resto, che cosa ne sarebbe di realtà come gli ospedali o i supermercati se non ci fosse questo materiale?

E per quanto riguarda l’impatto ambientale tutto quello che serve è responsabilizzare di più i consumatori e le consumatrici, innovare il prodotto e migliorare le tecniche di riciclaggio.

Nel frattempo là fuori gli attivisti per l’ambiente e istituzioni sovranazionali come l’Onu e l’Oecd denunciano l’utilizzo sconsiderato della plastica (secondo le Nazioni Unite ogni anno ne vengono riversate nell’oceano 12 milioni di tonnellate) e si impegnano per ridurne il consumo e cercare di salvare il Pianeta, consapevoli che per risolvere il problema servono scelte strutturali e non ci si possa solo basare sulla buona volontà dei singoli individui. E mentre è ormai palese l’inganno del riciclo (non tutta la plastica è riciclabile e globalmente solo il 9% viene effettivamente riciclato), e tracce di microplastiche (che derivano anche da scarti del riciclo) sono state trovate nelle nuvole, nel 93% dell’acqua in bottiglia, e perfino nella placenta di alcune donne, il fatto che esistano programmi come PlastiVan o piattaforme PragerU sembra assurdo, tanto quanto lo erano le pubblicità vintage delle sigarette con immagini di donne in gravidanza.

Credo che nessuno possa negare che la plastica sia stato un materiale rivoluzionario e che abbia permesso l’accesso di fasce di popolazione sempre più ampie a prodotti anche indispensabili, ma questo non significa che non possiamo pensare a delle alternative.

«Non riesco neanche a immaginarmi come sarebbe il mondo senza la plastica» esclama Layla dopo che il dottor Baekeland ha messo a tacere le sue obiezioni e le ha illustrato tutti i benefici e le comodità che il materiale ha portato alla vita moderna. E questo è certamente parte del problema.

Invece di programmi come PlastiVan, che annullano la coscienza critica e il senso di urgenza che i più giovani hanno ampiamente dimostrato di avere, facendo loro credere che l’emergenza ambientale causata dalla plastica sia gestibile esclusivamente con scelte individuali e impegnandosi nella differenziata, avremmo bisogno di iniziative che aumentano la consapevolezza dei rischi e che stimolino alla riflessione sulle alternative.

Se vogliamo davvero uscirne non abbiamo bisogno di struzzi che mettono la testa sotto la sabbia dell’illusione delle comodità, ma di individui critici e fantasiosi che, esattamente al contrario di Layla, un mondo senza plastica non solo riescono a immaginarlo ma sono anche disposti a impegnarsi per renderlo possibile.

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