Diritti

Corea del Sud, bonus bebè: le aziende offrono fino a 75.000 dollari

Entro il 2072 metà della popolazione sudcoreana avrà più di 65 anni: il tasso di fecondità, infatti, è ai minimi storici. Per correre ai ripari, le multinazionali promettono incentivi a chi decide di fare figli: basteranno?
Credit: Ann Danilina 
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
4 marzo 2024 Aggiornato alle 13:00

La denatalità non è un problema solo italiano. L’ombra dell’inverno demografico si estende anche su Paesi lontani da noi per geografia, struttura socioeconomica e cultura ma che si trovano ad affrontare la stessa sfida, in gran parte per gli stessi motivi. Uno di questi è la Corea del Sud, il cui tasso di fertilità (a 0,84 contro il 2,1 necessario affinché la popolazione si riproduca mantenendo costante i suoi numeri di oggi) è destinato a scendere fino a 0,65 entro il 2025, secondo le stime ufficiali di Statistics Korea.

Se le previsioni si riveleranno corrette, la popolazione nel Paese diminuirà del 30%, passando da 51,6 milioni a 36,2. I sudcoreani, però, non saranno solo pochi, ma saranno anche notevolmente più vecchi. Entro il 2072, metà della popolazione avrà più di 65 anni, il che significa che le aziende avranno difficoltà a trovare persone in età lavorativa da assumere, con tutte le ripercussioni che questo avrà sul tessuto sociale ed economico, oltre che su un sistema pensionistico che già oggi fa fatica a garantire una vita dignitosa agli anziani: 4 su 10, infatti, sono sotto la soglia di povertà.

Da anni i Governi sudcoreani cercano di correre ai ripari: alloggi sovvenzionati per i novelli sposi, assistenza postpartum scontata per le neo-mamme, un “baby payment” di 2.250 dollari per ogni neonato. Ma non è bastato. Ora, a scendere in campo sono le multinazionali, promettendo incentivi economici a 4 zeri per chi decide di fare figli e contribuire al mantenimento di una forza lavoro che altrimenti potrebbe dimezzarsi in 50 anni.

Tra queste c’è Booyoung Group, una società di costruzioni con sede a Seul, che dal 2021 ha versato un totale di 5,25 milioni di dollari al suo dipendenti per 70 bambini: tutti i dipendenti, sia uomini sia donne, hanno infatti diritto a un pagamento pari a 75.000 dollari ogni volta che hanno un bambino, senza vincoli. Anche Hyundai Motor l’anno scorso ha lanciato una task force con lo scopo di aumentare il tasso di natalità dei dipendenti e offre fino a 3.750 dollari come compenso per ogni neonato. Una cifra pari a quella che Posco, il principale produttore di acciaio del Paese, offre come bonus bebè per ogni nato.

Gli incentivi, pensati per aiutare i dipendenti a mettere su famiglia senza compromettere la carriera sono stati accolti con favore anche dal Presidente sudcoreano Yoon Suk Yeol, che ha definito questo tipo di iniziative «molto stimolanti». Eppure, rimangono alcuni dubbi sull’effettiva efficacia di incentivi economici una tantum, di qualunque entità siano.

In più, i pagamenti in contanti potrebbero non essere un’opzione sostenibile per molte aziende, in particolare per quelle di piccole e medie dimensioni, soprattutto se prima di elargire bonus a chi decide di riprodursi “per il bene della patria” non si affrontano alla radice le cause più profonde della denatalità: il persistente gender gap, l’enorme pressione sociale e la discriminazione “dilagante” sul posto di lavoro ai danni delle donne che non vogliono rinunciare alla carriera pur avendo figli. Tutto questo in un Paese che si colloca al 105° posto su 146 Paesi in termini di parità di genere e in cui la cultura aziendale è ancora un inscalfibile dominio maschile.

Il sondaggio di Pmi Research and Consulting ha mostrato che il 53,2% delle coppie sposate afferma di non avere intenzione di avere figli. Circa il 67,1% delle donne sposate che hanno riferito di non avere intenzione di avere figli hanno spiegato che il motivo era “dovuto al timore che la loro carriera venisse interrotta (a causa del parto)”.

Già secondo lo studio Gender Discrimination in the Workplace: Effects on Pregnancy Planning and Childbirth among South Korean Women, del 2019, “la discriminazione di genere sul posto di lavoro, in termini di assunzioni, promozioni, retribuzione, impiego, formazione e licenziamenti, ha una relazione esposizione-risposta con la pianificazione della gravidanza e l’esperienza del parto”.

La legge sulle pari opportunità di lavoro e sull’assistenza all’equilibrio tra lavoro e famiglia stabilisce che è illegale per un datore di lavoro discriminare un dipendente in base al sesso, al matrimonio, allo status all’interno della famiglia, alla gravidanza o al parto senza giustificati motivi. La legge, però, non specifica cosa costituisca una “discriminazione”. E gli effetti si vedono.

Gapjil 119, un gruppo civico locale composto da 150 esperti di diritto del lavoro, ha condotto un sondaggio su 1.000 impiegati: circa il 45% ha dichiarato di “non poter esercitare liberamente” il proprio diritto al congedo per la custodia dei figli, mentre il 36% ha detto lo stesso per il congedo di maternità.

Secondo un rapporto di Statistics Korea, il 62,4% delle mamme lavoratrici che hanno preso il congedo parentale lavorava per aziende con 300 o più dipendenti: è molto più difficile usufruire nel congedo in aziende piccole e medie.

Non solo: anche se assentarsi è possibile, le dipendenti temono di subire discriminazioni al loro rientro, come essere demansionate e riassegnate a posizioni meno desiderabili o non correlate al lavoro precedente, e decidono quindi di rinunciare. I dati sembrano dare loro ragione: secondo quelli del Ministero del Lavoro, riportati dal Washington Post, quasi la metà delle aziende sudcoreane ha penalizzato i lavoratori che utilizzano il congedo parentale quando si è trattato di decidere sulle promozioni.

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