Diritti

Mutilazioni genitali femminili: più di 4 milioni di ragazze a rischio

Oggi è l’International day of zero tolerance for female genital mutilation: una pratica ancora molto diffusa, soprattutto in Africa, per il suo valore simbolico e identitario in numerose comunità
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6 febbraio 2024 Aggiornato alle 10:00

Dal 6 febbraio 2012, quando l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato all’unanimità la risoluzione 67/146, si celebra nel mondo la Giornata della Tolleranza Zero contro le Mutilazioni Genitali Femminili (Mgf).

Decidendo di dedicare questa giornata al tema, l’Onu si poneva vari obiettivi. Innanzitutto, fare emergere un fenomeno che riguarda centinaia di milioni di bambine e ragazze; sensibilizzare l’opinione pubblica sulla questione creando cultura e conoscenza; infine, intensificare gli sforzi per l’eliminazione di questa pratica entro il 2030.

Il fenomeno, 12 anni dopo, è oggi sicuramente più conosciuto e combattuto: c’è maggiore coscienza e sono sempre di più le iniziative locali e internazionali di contrasto. Ma la strada è davvero ancora molto lunga. Secondo l’Unfpa (Fondo delle Nazioni Unite per la popolazione ), infatti, sono oltre 200 milioni le donne nel mondo ad aver subito mutilazioni genitali e nel 2024 sarebbero quasi 4 milioni e mezzo le bambine e le ragazze a rischio, l’equivalente di oltre 12.000 al giorno.

Tra le aree geografiche più colpite, l’Africa detiene il triste primato con 91,5 milioni di ragazze di età superiore a 9 anni vittime di queste pratiche. Sebbene costituiscano un grave rischio per la salute e il benessere delle donne e delle bambine, in molte comunità rappresentano un’usanza radicata nelle norme sociali tradizionali. Secondo le più aggiornate statistiche le Mgf sono praticate anche in Colombia, India, Malaysia, Oman, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti e in alcune popolazioni a prevalenza islamica del sud-est asiatico e dell’Asia meridionale (anche se la procedura non ha assolutamente nulla a che vedere con alcuna fede e non ha nessun richiamo in alcun testo sacro, ndr).

Ma le mutilazioni genitali femminili sono una realtà concreta anche in Europa, dove si calcola che vivano più di 600.000 donne e ragazze a cui è stata praticata una qualche forma di mutilazione genitale. Secondo l’Unhcr, l’Agenzia dell’Onu per migranti e rifugiati, sarebbero 180.000 le donne a rischio ogni anno. L’Italia, in particolare, è uno dei Paesi che ospita il maggior numero di donne mutilate (più di 87.000) in conseguenza di un consistente flusso migratorio femminile proveniente da Paesi ad alta prevalenza di Mgf.

«È una pratica antica che si è tramandata di generazione in generazione» racconta Awa Diallo ex tagliatrice, originaria della comunità di Awa, Senegal meridionale, dove oltre il 40% delle ragazze è sottoposta a mutilazioni praticate come segno di identità culturale. Awa ora è un’attivista contro le mutilazioni e fa parte del African Led Programme di cui la nota Ong Amref è promotrice.

«Dopo un corso di formazione, diverse attività di sensibilizzazione e comunicazione - continua - abbiamo capito che dovevamo porre fine a questa pratica e io, come altre mie “colleghe” tagliatrici, grazie alla nostra posizione, siamo state in grado di informare tante persone e convincerle a rinunciare al taglio».

La questione, infatti, come si capisce molto bene dalle parole di Awa Diallo, è legata alla cultura e non si affronta certo solo a suon di proclami, condanne, richiami ai diritti umani o inserzione all’interno dei propri sistemi giuridici di strumenti di controllo e sanzione: sono tutte misure giustissime, irrinunciabili, ma che rischiano di non aver effetto se non affrontate dal punto di vista culturale.

«Non si può contrastare una pratica ancestrale solo a colpi di proibizioni legislative, ovviamente necessarie – ha detto a La Svolta Omar Abdulcadir, il ginecologo somalo responsabile del Centro di riferimento Mgf di Careggi, Firenze (oggi in pensione) - Bisogna educare, convincere o prevedere rituali alternativi».

Agli inizi del secolo propose, come percorsi di cura, riti di passaggio incruenti su bambine che permettessero alla famiglia di tranquillizzarsi, oltre a pratiche di vere e proprie de-infibulazione (una operazione dal 2016 entrata nelle buone pratiche segnalate dall’Oms, ndr). In questo processo di consapevolezza, il ruolo del mediatore interculturale all’interno delle comunità immigrate che vivono nei nostri contesti, è fondamentale.

«Il mediatore – spiega Marta Bernardini responsabile sezione mediazione interculturale di Cies Onlus - in questi casi ha un compito estremamente delicato, di altissima professionalità, in un certo senso sublima il ruolo di mediazione tra due culture che per cambiare devono comprendersi, prima ancora che condannarsi. Per questo è molto importante che provenga da culture dove la pratica è diffusa, ne sappia capire le conseguenze drammatiche sul corpo delle ragazze, ma al tempo stesso ne comprenda l’altissimo valore, in molti casi irrinunciabile, per le loro mamme e le loro nonne. Facilita da un lato la comprensione degli operatori locali (medici, personale sanitario, ma anche insegnanti, specie nel campo della prevenzione, ndr), e aiuta le donne ad allontanarsene».

Il dialogo tra culture, in altre parole e, soprattutto, tra persone, insieme a un approccio antropologico-culturale, sono ingredienti irrinunciabili in percorso di affrancamento da questa pratica tanto brutale quanto inutile. Gli sforzi da compiere devono essere sistemici e passano dal coinvolgimento delle comunità, la promozione di un approccio basato su azioni di prevenzione e contrasto che mettano insieme il piano giuridico, l’educazione, le dinamiche comunitarie, i sistemi sanitari e la ricerca.

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