Diritti

L’archeologia di genere analizza la storia oltre gli stereotipi

Nuovi ritrovamenti rivelano come le convinzioni sui ruoli di donne e uomini di epoche passate siano in realtà frutto di pregiudizi
Credit: MARCO RIZZUTO /ANSA/JI
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5 gennaio 2024 Aggiornato alle 11:00

Alcuni reperti dell’antichità stanno ancora una volta mettendo in discussione gli stereotipi di genere a lungo utilizzati dagli archeologi per interpretare il ruolo della figura femminile nella storia. Alcuni ritrovamenti rivelano che i ruoli di genere nella società preistorica, ma non solo, erano più fluidi di quanto si possa pensare.

Nel sud-ovest della Spagna, all’interno del complesso funerario di Cañaveral de León, a novembre 2023 è stata ritrovata una lastra di pietra di circa 3.000 anni fa che ritrae un individuo con un copricapo, una collana, 2 spade e genitali maschili. Quella che, a prima vista, sembra essere la stele di un guerriero ritrae in realtà un individuo caratterizzato da un mix di elementi generalmente attribuiti sia a uomini (spade) che a donne (collana e copricapo). Secondo i ricercatori, si tratta di una scoperta molto rara che cambia la visione tradizionale sulla natura dei ruoli sociali della preistoria in questa regione dell’Europa.

Combinando caratteristiche “maschili” e “femminili”, la stele di Cañaveral de León dimostra che “i ruoli sociali rappresentati da queste iconografie standardizzate erano più fluidi di quanto si pensasse in precedenza - hanno spiegato gli archeologi - Inoltre, poiché la nuova stele include anche i genitali maschili, dimostra che questi ruoli sociali non erano limitati a un genere specifico, ma potevano essere associati a generi diversi”.

Il reperto non è l’unico ad aprire riflessioni all’interno dell’archeologia su come questa scienza abbia studiato e analizzato finora i ritrovamenti nel corso dei propri scavi. Solo in Spagna e in Portogallo sono stati portati alla luce circa 300 manufatti di questo tipo, il più antico dei quali risale al 2.000 a.C. In Svezia, uno scheletro scoperto nel 1889 corredato da vesti, armi e gioielli tipici dell’élite guerriera vichinga è stato per anni attribuito a un uomo, nonostante le dimensioni insolite della mandibola e delle ossa pelviche; nel 2014 le analisi sul suo Dna hanno permesso di stabilire che si trattava di una donna.

Fin dalla sua nascita negli anni ‘80 del ‘900, l’archeologia di genere ha cercato di mettere in luce gli stereotipi su cui si è a lungo basata la maggior parte delle ipotesi interpretative riguardo al passato, comprese le idee di un dominio maschile universale nella storia. Traendo ispirazione da altre discipline umanistiche e dai movimenti per i diritti civili, gli archeologi di genere indagano i ruoli e le identità di genere sfidando l’idea che questo sia senza tempo, biologicamente determinato e universale.

Secondo numerosi studi, nei settori accademici e non accademici, l’archeologia ha perpetuato e continua a perpetuare stereotipi che riflettono interpretazioni riduttive del passato, replicando spesso percezioni contemporanee. L’archeologia stessa è rimasta a lungo una disciplina chiusa nei confronti delle donne, lasciando poco spazio alla presenza e alla pubblicazione delle studiose in questo campo. Questo approccio ha favorito, secondo i critici, anche una scarsa documentazione dell’esperienza femminile nella storia.

L’idea che gli uomini preistorici fossero più forti e dinamici, e per questo dediti alla caccia mentre le donne si occupavano esclusivamente di raccogliere il cibo dalle piante, è per esempio ancora oggi comune, per quanto inesatta. I documenti archeologici - etnografici dimostrano infatti che la differenziazione di genere nelle mansioni quotidiane non implicava automaticamente una disuguaglianza di genere, né che solo gli uomini cacciassero o combattessero mentre le donne restavano con la prole: i ruoli erano spesso interscambiabili; entrambi contribuivano in egual misura alla sopravvivenza del gruppo.

Allo stesso modo l’idea che le donne fossero meno alfabetizzate e colte degli uomini rappresenta un falso storico. Per esempio, nell’antico Egitto, molti documenti attestano l’esistenza di diverse donne come scribe professioniste, tuttavia spesso trascurate dagli studiosi moderni. Anche le monache medievali, su cui esistono pochi documenti e studi dedicati, rappresentavano importanti figure di riferimento culturale del proprio tempo.

L’approccio femminista dell’archeologia di genere ha inoltre permesso di decostruire alcuni stereotipi legati al binarismo di genere e all’eteronormatività nella storia. Per esempio, il fatto che in diverse società gli individui vivessero in modo fluido l’identità di genere è stato comprovato in diversi luoghi del mondo: persone come i kwolu-aatmawols (in Papua Nuova Guinea), i güevedoces (in Repubblica Dominicana), gli hijras (in India), i burrneshas (in Albania) o i chibados (in Angola), tra gli altri, hanno incarnato categorie di genere al di fuori della dimensione eteronormativa.

E ancora, l’archeologia di genere ha permesso di riconoscere che il modello tradizionale di famiglia moderna borghese ed europea attribuito spesso anche ad altre epoche storiche, come la preistoria e l’antica Roma, non sempre è valido. “La definizione di famiglia - spiega l’archeologa Julia K. Coach - dipende dal tempo, dalla regione, dai contesti sociali e culturali, mentre la sua comprensione può cambiare nel giro di pochi decenni”.

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