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La crisi del clima riguarda tutti: perché parlarne solo una volta l’anno?

David Rossati, esperto di diritto internazionale, ha condiviso con La Svolta le sue opinioni su responsabilità climatica, Cop, azioni giuridiche contro i grandi inquinatori e sulla necessità di una governance globale dedicata al climate change
David Rossati, esperto di diritto internazionale alla Vrije Universiteit Amsterdam
David Rossati, esperto di diritto internazionale alla Vrije Universiteit Amsterdam
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9 gennaio 2024 Aggiornato alle 14:00

La Cop28 di Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, si è chiusa il 12 dicembre 2023, dopo quasi 2 settimane di discussioni sul futuro del Pianeta e degli impegni climatici.

La Svolta ha parlato con David Rossati, assistant professor di diritto internazionale alla Vrije Universiteit Amsterdam, che ha condiviso il suo pensiero riguardo l’ultima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici; di seguito, il riassunto di cosa è emerso.

L’ultima Cop

Quest’ultima Cop, in un certo senso, sancisce davvero l’inizio del ciclo dell’Accordo di Parigi, per assicurare un’azione concreta di tutti gli Stati per rimanere entro il limite di innalzamento della temperatura a 1.5°C. Ci sono voluti 7 anni per assistere alla messa in moto di questo complesso “macchinario” legato al Global Stock Take. Un processo dove gli stati fanno un resoconto collettivo sulla situazione corrente e sul “da farsi”.

Però, bisogna riconoscere che il modo in cui questi accordi hanno lavorato fino a oggi è insufficiente rispetto alla portata dei cambiamenti climatici.

Per molti il risultato finale della Cop28 non è soddisfacente. E questo può anche essere dovuto dalla presidenza della conferenza di quest’anno, assegnata al sultano Al-Jaber, ministro degli Emirati Arabi Uniti e amministratore delegato della società petrolifera dello Stato. Essedo la Cop un consesso di natura pubblica, questa nomina ha aperto un dibattito sulla questione di conflitto di interessi per chi presiede questo processo (ha, quindi, influenza sull’esito delle negoziazioni).

La Cop, più in generale

Partendo dalle basi, la definizione formale delle Cop è “organo supremo dei trattati”. Perciò, non sono un’entità indipendente in diritto, ma solo un’occasione di incontro tra Stati, regolato dalla Convenzione Quadro sui cambiamenti climatici dell’Onu - Unfccc (United Nations Framework Convention on Climate Change) e dall’Accordo di Parigi del 2015.

Gli Stati non sono vincolati dalle decisioni prese in queste occasioni. Da un lato, ciò fornisce l’opportunità per i Paesi di concedere qualcosa “di più” nel documento finale della conferenza: si pensi agli Emirati Arabi Uniti e agli altri Stati petroliferi che hanno dato il consenso a inserire la frase “transitioning away from fossil fuels” nel testo.

Dall’altro, questi trattati non impongono diritti oppure obbligazioni specifiche sulle quantita di riduzione delle emissioni, né sui Paesi né sui cosiddetti non-state actors, ovvero gli attori non statali, come le società più inquinanti.

Formalmente, questi attori che includono le Ong ambientali, i giornalisti e i media, le società di energia (sia rinnovabile che fossile), i gruppi indigeni, i ricercatori accademici e i think tank, sono solo osservatori durante le negoziazioni. Ma all’interno di questo ampio gruppo viene fatta una distinzione tra chi rientra nella zona verde e che nella zona blu delle Cop.

La prima zona accoglie un circolo più ampio di partecipazioni, dove i non-state actors si incontrano e interagiscono anche con chi fa parte delle negoziazioni vere e proprie (per creare eventi, per esempio, anche proteste a volte) e rappresenta un’area riconosciuta di aggregazione e discussione.

La zona blu, invece, è composta da diplomatici, altri rappresentanti delle organizzazioni internazionali e osservatori accreditati come esperti o lobbisti che osservano le negoziazioni e ne sono anche partecipi; in questo caso, è previsto un accesso più intimo a determinati eventi, negoziazioni, aperte ma anche chiuse. Qui si tengono anche i side events, per discutere di aspetti fondamentali e temi specifici delle negoziazioni.

Il tema della responsabilità

Un grande tema è quello della responsabilità: chi può o deve venir considerato responsabile della situazione in cui si trova oggi il Pianeta?

Attingendo al diritto internazionale, responsabilità è un termine che si riferisce a una situazione nella quale un soggetto ha messo in essere un comportamento o non si è comportato in un certo modo e questo ha portato a una condotta che è contro una prescrizione di diritto.

Nell’Unfccc e nell’accordo di Parigi si parla di “common but differentiated responsibilities and respective capabilities of states”, responsabilità comuni ma distinte e le rispettive capacità degli Stati. Anche se questo non implica responsabilità a livello giuridico, viene riconosciuto che storicamente le azioni dei Paesi hanno creato disequilibri (chi più, chi meno).

Infatti, è dal 1991 che le isole Marshall stanno chiedendo una forma di risarcimento per i danni e le perdite causare dal cambiamento climatico. Il discorso si è evoluto e, semplificando, biforcato: da una parte si cercano soluzioni concrete alle conseguenze dei disastri naturali; dall’altra, c’è la questione finanziaria. Il compromesso raggiunto alla Cop28 riguarda la creazione di un nuovo fondo, che dovrà fornire un contributo finanziario ai Paesi più vulnerabili.

2 sono gli aspetti principali di questo fondo sui quali si può essere critici:

1 - potrebbe rivelarsi una duplicazione di altre iniziative finanziarie che sono state già fatte, come l’istituzione del Green Climate Fund;

2 - la quantità di soldi promessa non può essere rapportata con la quantità reale di distruzione e perdita (economica e non) generata del cambiamento climatico.

In generale, ciò che è stato fatto fino a oggi nell’ambito del diritto internazionale per contrastare il cambiamento climatico ha dato scarsi risultati: collettivamente, come comunità di Stati e società, non stiamo riducendo sufficientemente il livello di emissioni e non stiamo offrendo abbastanza supporto a chi ne ha bisogno.

Nuovi possibili approcci?

In questo quadro, ci si può affidare ad altri lati del diritto internazionale che spesso vengono sopravvalutati. In particolare, ci sono 3 elementi interessanti da osservare.

Il primo è un diritto più generale, che chiede agli Stati di non creare danni fuori dai loro territori per attività sotto il loro controllo, generando un senso di responsabilità. Recentemente l’assemblea Onu ha richiesto alla Corte Internazionale di Giustizia una advisory opinion sulla responsabilità degli Stati verso le generazioni future nei confronti dei Paesi più vulnerabili (al momento, i Paesi stanno inviando alla corte di giustizia internazionale la loro interpretazione giuridica a questa domanda).

Tuttavia, anche se è possibile definire una “responsabilità” secondo il diritto internazionale, sarà difficile quantificare numericamente i danni: uno Stato quante emissioni deve avere generato negli anni per potersi tenere responsabile per un determinato danno? Nel futuro, quanto dovrà ridurre le proprie emissioni per poter “liberarsi” dalla sua responsabilità? E si può davvero connettere uno specifico ammontare di emissioni in atmosfera con un danno reale e specifico in un Paese vulnerabile? Queste sono questioni su cui si spera che la Corte dia chiarimenti.

In secondo luogo, c’è la questione relativa alla violazione dei diritti umani connessi alla crisi del clima e il ruolo degli Stati in questi abusi.

Infine, c’è la possibilità di intraprendere azioni giuridiche, azioni di liability, direttamente contro le società più inquinanti (in Olanda c’è stato il primo caso contro Shell, che adesso è sotto appello). In generale, più si avranno dati accurati sul comportamento di queste imprese a livello ambientale, sulle emissioni che producono e su quanto impattano sulla natura, maggiori chances ci saranno per intraprendere queste azioni legali contro i grandi inquinatori.

In questo modo, è possibile notare come il diritto possa essere messo al servizio dell’azione climatica, forse anche più della politica al momento dato che, a seguito della pandemia e dei suoi effetti sull’economia, al momento la messa in opera delle politiche climatiche da parte degli Stati industrializzati sembra essere sempre più rallentata.

Non si può fare a meno di una impalcatura di governance globale sul cambiamento climatico: è un problema che ci riguarda tutti e di cui bisogna parlare, sul quale bisogna prendere decisione e agire. Forse abbiamo bisogno di una governance globale che sia allo stesso tempo più dinamica e rappresentativa dei popoli: e perché, quindi, avere questo tipo di incontri solo una volta all’anno? Perché non è possibile avere una forma di “parlamento permanente” sul cambiamento climatico?

Queste sono domande che forse emergeranno sempre di più nei dibattiti nazionali e internazionali con il probabile inasprimento della crisi climatica.

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