Ambiente

Accordo Cop28: l’abbandono dei fossili potrebbe essere complesso per alcuni Paesi

Il documento Global Stocktake promette un completo e rapido distacco da gas, petrolio e carbone; spetterà ai singoli Stati raggiungere l’obiettivo, ma i mercati potrebbero non rispondere immediatamente
Alcuni manifestanti a Dubai mostrano cartelli con la scritta "Fine dell'era dei fossili" a Cop28, il 12 dicembre
Alcuni manifestanti a Dubai mostrano cartelli con la scritta "Fine dell'era dei fossili" a Cop28, il 12 dicembre Credit:  Hannes P. Albert/dpa  
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14 dicembre 2023 Aggiornato alle 19:00

Dopo 12 incessanti giorni di negoziati, i 198 Paesi della Cop28 di Dubai sono riusciti ad approvare all’unanimità il documento per avviare una netta “transizione dai combustibili fossili” con l’obiettivo di raggiungere le zero emissioni entro il 2050; lo stesso anno che l’accordo di Parigi, firmato nel 2015, pone come termine entro cui mantenere la temperatura mondiale a 1,5 gradi da cui però, stando alle ultime rilevazioni dell’Emissions Gap Report 2023 curato annualmente dal 2010 dallo United Nations environment programme (Unep), il mondo sarebbe ancora molto lontano.

L’accordo è arrivato dopo una notte di trattative sulla versione di un testo presentato 2 settimane fa. Un documento di 21 pagine, giudicato come un «risultato storico» dai rappresentanti delegati dei paesi firmatari. Primo fra tutti, il Ministro dell’industria e della Tecnologia Avanzata e presidente della Cop28 Sultan Al Jaber, che ne ha sottolineato l’unicità a partire dalla completa assenza della parola “petrolio”, sostituita da un più generico “combustibili fossili”. Un cambio nome che tuttavia rimanda alla principale fonte di ricchezza economica degli Emirati Arabi Uniti (che ha ospitato il vertice) ma da cui si vorrebbe distaccare lo stesso Al Jaber, che oltre a ricoprire incarichi istituzionali è una figura di spicco di Masdar, azienda che intende trasformare il Paese in un hub di energie rinnovabili e costruire la prima città a zero emissioni di carbonio, nel deserto: Masdar City.

Il documento (Global Stocktake) ha il suo cuore pulsante nella mancanza della dicitura “phase-out”, che indicava l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, auspicata invece da numerose Nazioni profondamente legate al petrolio come l’Arabia Saudita. Entro il 2050 invece dovranno essere completamente superati i sistemi energetici connessi ai combustibili inquinanti attraverso un percorso “giusto, ordinato ed equo, accelerando l’azione in questo decennio critico”, come si legge nel punto 28 del testo. Lo stesso che invita le Parti a contribuire agli sforzi, in linea con gli step dell’accordo di Parigi, triplicando la capacità di energia rinnovabile a livello globale e raddoppiando il tasso medio globale annuale dei miglioramenti dell’efficienza energetica entro il 2030.

Per raggiungere un obiettivo tanto ambizioso sarà quindi necessario velocizzare l’andamento della produzione energetica verso sistemi a zero emissioni, attraverso combustibili a basso contenuto di carbonio come le rinnovabili, il nucleare, e (specialmente nei settori industriali hard-to-abate) la produzione di idrogeno a basse emissioni di carbonio. A marzo il Governo Italiano aveva dedicato uno stanziamento di 1 miliardo per incentivare le aziende estremamente energivore e inquinanti a investirvi.

Sotto il mirino dell’intesa c’è anche l’energia prodotta da carbone non ancora abbattuta, la cui riduzione potrebbe essere attuata anche grazie a tecnologie di cattura e stoccaggio della CO2 (Ccs), un processo che permette di prendere l’anidride carbonica emessa da impianti industriali o di generazione elettrica e trasportarla verso una successiva struttura di stoccaggio a lungo termine. Si tratta di una procedura ancora poco affermata a livello commerciale, dato che conta, secondo l’Agenzia Internazionale dell’Energia, solo 40 applicazioni commerciali su larga scala, ma che l’accordo di Dubai inserisce fra le principali tecnologie su cui gli Stati dovranno puntare per accelerare la decarbonizzazione completa.

In generale, il Global Stocktake lancia un forte segnale alle industrie e soprattutto agli investitori. Un’esortazione a guardare al di là degli andamenti di petrolio, gas e carbone e ripensare il proprio portafoglio in funzione di un nuovo sviluppo generalizzato del green, in quanto i centinaia di miliardi «investiti nell’espansione dei combustibili fossili - commenta Mark Campanale, fondatore e direttore del think-tank Carbon Tracker - stanno diventando molto più rischiosi».

Simon Stiell, capo dell’organismo delle Nazioni Unite per il clima, ha commentato il documento come «l’inizio della fine» per l’industria dei combustibili fossili, suggerendo agli investitori e alle imprese di tutto il mondo di osservare da vicino i loro Paesi per capire come daranno attuazione all’accordo. «Non mi aspetto un’enorme reazione immediata da parte dei mercati azionari, un forte rallentamento delle compagnie petrolifere e l’ascesa delle società di energie rinnovabili» conclude disincantato Stiell.

D’altronde ai “Paesi fossili”, la cui economia si basa sulle fonti energetiche che lo stesso accordo vorrebbe debellare nei prossimi 30 anni, vengono riconosciute tempistiche differenziate per attuare tutti gli obiettivi del piano. Il punto 20 infatti prevede che “i combustibili transitori” possono svolgere un ruolo nel facilitare la transizione garantendo al tempo stesso la sicurezza energetica. Un termine assai vago e generale, tanto da poter sembrare una valida scappatoia per molti Paesi produttori di combustibili fossili come gli Stati Uniti affinché possano continuare a espandere il loro business con la scusa della transizione. Una vera e propria «strada irta di ostacoli verso un futuro senza fossili», ha commentato la responsabile globale per il clima di Action Aid Teresa Anderson.

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