Diritti

Siamo terrorizzati dall’idea di non sfruttare il tempo

Che fine ha fatto il diritto alla noia? È stato superato dal power nap, il pisolino che ci “ricarica” per essere più produttivi: bisogna continuamente fare cose, altrimenti siamo inutili. Un po’ come ha appena ricordato il New Yorker
Credit: Nick Shandra 
Tempo di lettura 7 min lettura
29 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Scrivo che mancano pochi giorni alla fine dell’anno. Dalla scrivania vedo le pozze di luce allargarsi sul pavimento, inondare la stanza. Vorrei mettermi seduta, lì vicino. I piedi al caldo, invece di doverli tenere incastrati nell’incavo delle ginocchia patendo il loro essere gelidi mucchietti di ossa, un libro in mano, i gatti che riposano ognuno in un punto diverso della macchia di sole. Vorrei, ma il mio cervello non può.

Sono seduta alla scrivania, si è capito, e sto scrivendo questo articolo. I gatti stanno facendo una serie casualmente orchestrata di rumori, uno più fastidioso dell’altro. Uno di loro penso stia cercando di tirare giù la tenda. Quello scenario rimbalza in un angolo della mia testa mentre il reale scorrere delle cose mi ricorda che sono in attesa e che io, in attesa, non funziono.

Mentre scrivo, sto aspettando l’arrivo di una chiamata importante. Il tempo tra l’adesso e quel momento segnato in agenda mi suona come un ostacolo, un blocco lentissimo e inamovibile che vorrei solo scansare. Sto aspettando una mail, da due settimane, e non ti dico la tortura. Ogni giorno, verso le 20:00 capisco che “anche oggi la mail non è giunta” e il mio cervello si rimette in questo stato di attesa, che di fatto è un nervoso rimuginio.

E vorrei dirmi: “hey, è solo una mail!”, ma no, sono ben due. Sono due mail a tenere in scacco il mio umore, il mio tempo. Due mail che prima erano tre, ma una è arrivata la scorsa settimana e si è tradotta in questa chiamata che sto aspettando con così tanta insistenza che quasi vedo solidificarsi la mia inquietudine.

Mi scorre nelle dita, perciò scrivo. Scrivo perché non voglio riempire il tempo, voglio avere la forza mentale di starci dentro. Voglio impormi di non farcire le attese con “cose da fare e da sbrigare” e ficcarci dentro solo la mia presenza. Di norma sarei interiormente irrigidita, irritata e incapace di non fare una miriade di cose o, peggio, impossibilitata a farne anche solo una, preda dell’assoluta inedia che mi soffoca quando il tempo non si muove. Attendere, tendersi verso qualcosa. Nel mio caso, onestamente, sono tesa verso la fine dell’attesa.

Perciò mi fermo, mi blocco e mi chiedo: e poi? Martina, e dopo l’attesa? Che te ne fai di un tempo esaudito se non lo vivi? Se cerchi di annullarlo lavorando o arrovellandotici fino a sentire di che consistenza sono le tue fibre nervose, cosa avrai fatto di quel tempo?

Vorrei dire niente, ma niente è l’obiettivo. La vero risposta che mi devo dare è che avrò perduto quel tempo. Nel senso che l’avrò smarrito, non l’avrò attraversato ma solo cancellato, rimosso. Impiegato male con una produttività compensativa. Avrò messo tutto il contenuto possibile solo per illudermi di averlo spinto oltre, ma saranno solo minuti andati, ore dimenticate, respiri non allargati, pensieri non pensati. Mi illuderei di aver messo lo scorrere del tempo a velocità accelerata, a 2x. Avrei pure la soddisfazione produttivista dell’aver fatto qualcosa di retribuibilmente sensato. Qualcosa che il sistema del fare per avere apprezzerebbe. Sarebbe tempo “investito bene”.

È soprattutto per questo che mi sono messa a scrivere. Per fermarmi prima. Per non partire a produrre pur di non sentire il tedio, pur di ignorare la tensione, pur di non riflettere su qualcos’altro. Perché si sa, è nel buio e nel vuoto che abbiamo paura, che sentiamo i nostri timori strisciare e ghermirci mani e piedi, scivolarci in gola e stringere. Accendiamo le luci, ci imbottiamo la testa di televisione per inerzia. I nuovi riti, che ci fanno avere una paura fobica del tempo.

Cronopatici, terrorizzati all’idea di non sfruttare il tempo, impauriti dalla paura stessa, fobofobici, ci anestetizziamo per sfruttare tutto, persino il tempo. Quello che grammaticalmente verrebbe da definire nostro, ma che non è in nostro possesso.

Anche perché il tempo se l’è preso il capitale. Lo ha messo a reddito. Addirittura ci fa pagare per imparare come sfruttarlo al 100%, a smettere di avere tempi che chiama “morti”, insegnandoci che se non si sta attivamente facendo qualcosa di socialmente riconducibile alla produttività, quindi a esiti economici o che abbiano in qualche modo amplificato una situazione di partenza, siamo pressoché inutili, defunti e, per questo, sbagliati. Morte e noia, per uccidere la noia, il diritto alla noia, ma anche la capacità di annoiarsi, di non fare nulla o, peggio che mai, di fare cose che non hanno senso economico. Tipo sedermi a terra a leggere un libro.

Addirittura, oggi non si fanno più i pisolini, ma i power nap. Sonni brevi calcolati (perché ci si dà un tempo) per ottenere il massimo dalla fase di riposo, evitare lo stordimento e uscirne più carichi che mai, pronti a sorridere, stare al telefono, allo schermo del pc, a programmare, concordare, parlare, firmare, compilare, ottenere un aumento, una promozione, fare lo scatto di carriera, avere più soldi in busta paga, mettere in cantiere un altro figlio, mandare l’altro a lezioni di piano dopo il tennis o il calcio, soffrire perché anche con il nuovo titolo la busta paga è insufficiente e per questo la persona minore di casa non potrà mai iscriversi a quel corso che desiderava tanto; carichi a pallettoni per chiudere contratti, vedere clienti, sognare riposi che tanto non si potranno mai fare perché le ferie al massimo permettono una settimana consecutiva, due se solo si riuscisse a essere promossi, insigniti dall’alto di una dignità maggiore di chi si troverebbe magicamente sotto di noi, perché non si diventa superiori se non c’è nessuno sotto, suvvia.

E quindi, dormire per 20 minuti perché alla fine quello che conta è arrivare al cenone di Capodanno, sedersi e a quel “ci sono novità” sorridere con lieve modestia e annunciare a voce alta che “mi hanno promossa.” Che ho passato tutto l’anno a calcolare le pause per farmi dire che sono brava a fare quello che faccio e che merito un premio, che non ho sprecato nemmeno un secondo a domandarmi perché vivo, perché lo so perché vivo, per ritrovarmi qui tra un anno a dire che mi hanno promossa ancora o, peggio (peggio per me), a tacere sconsolata mentre è qualcun altro ad avere una “buona notizia.”

E poi, non illudiamoci, ci sarà l’attesa di sentire che finalmente è vacanza e non si lavora! Finalmente il tempo tanto atteso, quello in cui si ha il permesso di non fare nulla. In cui il nulla è la possibilità, ma non la realtà. Perché ci sono cene da imbastire, pranzi da cuocere e case da pulire. Macchine da mettere in moto, parenti da recuperare, persone da ignorare, messaggini da inviare; gif orrende con orsi polari, molto più sani di quanto non siano in realtà, che dicono “Buone feste”.

E poi, l’altra grande attesa della fine dell’anno, perché bisogna assolutamente festeggiare e, va detto, farlo bene. Si rincorre quel conto alla rovescia e “Tanti auguri!”, tuttə prontə a riprendere il carosello delle cose da fare, perché bisogna “fare” per guadagnarsi le ferie, per Pasqua, agosto e Natale. Bisogna riempire gli spazi tra quei momenti. Senza se e senza ma. Fare fare fare fare fare. Fino a che il tempo non sarà finito. Niente attese, la vita è volata. Ora si muore, si muore per davvero. Non era la fine quella che stavamo aspettando? La fine dell’attesa.

Per la maggior parte delle persone non è nemmeno una scelta avere troppo da fare, ma chi considera la maggior parte dell’umanità? Perché pensare a chi non ha tempo, perché gli viene rubato affinché qualcuno possa avere abbastanza soldi da pagarsi il corso di iper-produttività?

Pensiamo che esista solo quello che va fatto e che smettere di fare sia la vera morte. Facciamo, facciamo un gran casino e un gran bel botto, a Capodanno, perché gli animali sono carini tutto l’anno finché non li si deve traumatizzare con i botti o s’ha da servire in tavola la zampa intera di un maiale per finire l’anno.

È passata un’ora. Ho ammazzo un’ora. Ne manca una, ma ho deciso, ho capito, che non importa. Che non voglio stare ad aspettare. Che questo tempo senza numeri e senza spazio me lo voglio vivere. Pure il sole s’è spostato. Sarà ora che impari.

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