Diritti

Fare male per fare del bene: quando la comunicazione sulla violenza sbaglia

Il Comune di Cagliari ha presentato il video Fischia la fine contro gli abusi di genere. Un messaggio fondamentale se consideriamo che siamo a quota 109 femminicidi. Il problema è come è stata fatta la comunicazione, che punta sulla vittimizzazione secondaria
Ella Marciello
Ella Marciello direttrice comunicazione
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21 dicembre 2023 Aggiornato alle 11:20

Fischia la fine è il titolo scelto per la campagna sociale promossa dal comune di Cagliari per sensibilizzare cittadini e cittadine sulla violenza maschile contro le donne.

Uno spot, presentato in conferenza stampa in questi giorni e che sarà divulgato sui canali istituzionali, che sbaglia ogni cosa e (di nuovo) assimila vittima e carnefice in un continuum logico, dividendone le responsabilità.

Il protagonista è un fischietto rosso, lo strumento con cui idealmente dovrebbe esser denunciata la violenza. Ancora una volta però, si manca totalmente il punto e si continua a far passare il sottotesto che chi è vittima di violenza ha il compito di salvarsi e ha la responsabilità di far cessare la violenza stessa.

Ora, io non so come mai sia così difficile parlare di violenza di genere in un Paese in cui essa è quotidiana, esistono linee guida ministeriali e carte istituzionali che ne normano il racconto. Un Paese che vive di associazionismo e in cui associazioni, divulgazione e attivismo si spendono ogni giorno per mettere in luce i punti nevralgici di narrazioni contorte e sbagliate.

La carta di Venezia per una corretta informazione per contrastare la violenza sulle donne, come chiede la Convenzione di Istanbul, è del 2017. Basterebbe averla letta una volta per rintracciare gli errori, per capire come non dar voce a stereotipi e vittimizzazione secondaria, per smettere di fare un calderone tra chi la violenza la compie (gli uomini) e chi la subisce (le donne).

Lo spot si apre con un urlo: è quello di una donna. Non la vedremo mai e la sua intera identità è confinata all’interno di un grido di dolore. In sottofondo, il pianto di un bambino. Sullo sfondo nero si apre un occhio, che assiste alla comparsa a caduta di parole come “femminicidio”, “violenza sessuale”, “stalking”.

Le parole si accatastano una sull’altra formando un muro. L’occhio vitreo è ancora lì, spalancato, mentre di nuovo le grida fanno da sottofondo tragico e una saetta arriva a squarciarne la pupilla. Suona il fischietto.

Stacco.

Una voce maschile impostata, come deus ex machina, arriva a farci lo spiegoncino. Lo spiegoncino, testuale, recita:

Se sei vittima o testimone di violenza

Non puoi stare in silenzio.

Perché anche il silenzio è violenza.

Se vedi o subisci violenza, denuncia, per un nuovo inizio.

Fischia la fine.

Chiama il 1522

Trovo inammissibile che all’alba del 2024, dopo l’ennesimo anno costellato di femminicidi, dove la violenza di genere permea qualunque strato della società e dove la cultura patriarcale non arretra di un millimetro si possa ancora dare voce a narrazioni colpevolizzanti come questa.

Ancora una volta manchiamo l’obiettivo di fare una divisione necessaria: la vittima non è il carnefice e non esiste corresponsabilità nella violenza.

La violenza è responsabilità di chi la compie, sempre. Non possiamo più parlare a entrambi gli attori di una tragedia che si compie su base quotidiana usando parole che li accomunano, perché mandiamo un messaggio distorto ed erroneo.

Se questo fosse stato uno spot indirizzato ai bystander (in gergo: chi assiste a una violenza o a una discriminazione) sarebbe stato comprensibile. Avrebbe posto l’accento sull’assunzione di responsabilità come atto necessario: chi vede non può tacere. A scuola, nei luoghi ricreativi, sul posto di lavoro, nei luoghi comunitari.

Ma qui c’è un errore concettuale decisamente grave: si pongono sullo stesso piano donne e uomini parlando a entrambi, con gli stessi codici e lo stesso messaggio. È decisamente importante, invece, iniziare a differenziare i messaggi: comprendere le leve, anche comunicative, che possano da un lato costruire narrative e spazi accoglienti e sicuri per le donne (evitando grida, atmosfere di paura, lividi, mani sul volto, sangue) e che non abbiano come risultato quello di far rivivere il trauma e, dall’altro, coinvolgere e responsabilizzare gli uomini come parte attiva nell’interruzione della catena della violenza stessa, tra loro, tra pari.

Anche scegliere una voce maschile che, di fatto, spiega e vittimizza chi la violenza purtroppo la subisce è drammaticamente sbagliato, perché ancora una volta le donne si sentono dire dal genere oppressore che esiste un modo per non farsi stuprare, stalkerare, violentare, ammazzare. È una dissonanza cognitiva potente che arriva a livello inconscio e si stratifica su un terreno già composto da paura, vergogna, vuoto sociale.

È necessario e urgente che la comunicazione in ottica di genere sia affidata a persone competenti e preparate, che sia vagliata da esperte, esperti, perché, a differenza degli spot di detersivi e merendine, ha un impatto devastante su chi la riceve. È una comunicazione che ha un compito e un obiettivo altissimo: non possiamo più permetterci, in un Paese in cui la conta dei femminicidi è arrivata a quota 109 e le richieste d’aiuto di 1522 sono state più di 30.000, di dire alle donne che se rimangono in silenzio si stanno facendo violenza da sole.

Perché se combattiamo la sistematicità della violenza allora dobbiamo ricordarci che accanto a quella fisica, sessuale, psicologica, economica esiste quella istituzionale in cui lo Stato e le amministrazioni pubbliche agiscono come ostacolo o favoriscono la discriminazione.

Anche con comunicazioni come questa.

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