Diritti

Cos’è l’iceberg della violenza di genere?

Femmicidi, violenza sessuale e fisica sono le manifestazioni eclatanti di un sistema che parte dal basso e si alimenta di azioni e parole spesso ignorate, ma che rappresentano la base di un iceberg gigantesco

Dopo un femminicidio, immancabile come la rabbia di chi sapeva che sarebbe successo ancora ma non ha mai smesso di gridare perché tuttǝ vedessero quello che era già drammaticamente evidente e le frasi di circostanza di chi promette di fare qualsiasi cosa perché non accada più – e poi non fa niente – è il coro di voci maschili che si leva per dire #notallmen. Per rivendicare, con orgoglio, «io sono diverso, non ucciderei mai nessuno», per allontanare da sé quella responsabilità collettiva – e non colpa individuale – che non è un’invenzione delle nazifemministe misandriche (e magari sataniste) ma che nasce dal mancato riconoscimento di un privilegio e dalla conseguente mancata volontà di combatterlo, mettendo in discussione uno status quo di cui sono i beneficiari.

Non tutti gli uomini sono assassini o abusanti, è vero ed è assurdo pure doverlo ribadire. Ma tutti gli uomini (sì, al netto delle eccezioni, sicuramente molto meno numerose di chi dice “non tutti gli uomini”) se parliamo di violenza di genere hanno una responsabilità. Perché la violenza di genere – che è la “manifestazione delle relazioni di potere storicamente diseguali tra uomini e donne, relazioni che hanno condotto alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini ostacolando il pieno avanzamento delle donne” – è un fenomeno multiforme e stratificato, di cui i femminicidi sono la manifestazione estrema e più visibile. Proprio come la punta di un iceberg.

Sotto, c’è la parte sommersa, tutte quelle forme più “sottili”, spesso quotidiane e normalizzate, che si intersecano e rafforzano tra loro. E che dalle battute “da spogliatoio” ai gruppi del calcetto, ai commenti sessisti di amici e colleghi, passando per catcalling, oggettivizzazione, sessualizzazione, ben pochi combattono veramente nella loro vita quotidiana, spesso perché non le riconosco nemmeno come forme di violenza. Eppure, lo sono: ecco perché.

L’iceberg della violenza di genere: che cosa è?

Quella dell’iceberg è un’immagine che viene utilizzata per descrivere la violenza di genere nella sua complessità, mostrando come ciò che vediamo ogni giorno non sia che una parte di un fenomeno più stratificato. L’esposizione mediatica (e talvolta la spettacolarizzazione) dei casi più drammatici ed efferati, infatti, ha fatto aumentare la consapevolezza delle forme più estreme di violenza. Oltre a queste, però, ce ne sono molte altre, che dobbiamo imparare e riconoscere, a vedere. Una delle verità più pericolose e insidiose sulla violenza di genere, infatti, è che è più facile da ignorare se non è visibile.

Nel 2011, la Commissione Europea ha finanziato un progetto biennale dal titolo The Iceberg Project, per sensibilizzare sulla violenza domestica come parte di una serie di programmi chiamati “Daphne”. L’Università di Coventry ha lavorato in collaborazione con partner in Spagna, Francia e Bulgaria. “Crediamo che il simbolo dell’Iceberg rappresenti la natura della violenza domestica e degli abusi - si legge sul sito dell’Università. - La sottodenuncia di violenze/abusi domestici è un problema di lunga data; questa risorsa aiuterà tutte le vittime/sopravvissute alla violenza domestica e agli abusi”.

Iceberg della violenza di genere: la parte invisibile

106 femminicidi in meno di un anno, aggressioni, violenze sessuali: è impossibile non vedere quello che accade sopra la superficie del mare, a meno di non rifiutarsi di farlo.

Quello che accade sotto, però, è per certi aspetti più complesso da riconoscere, perché l’associazione con quello che consideriamo “violenza” e i suoi segni tangibili (il sangue, i lividi, le urla) è meno immediato. Questo non significa che non si tratti lo stesso di violenza.

Alcune sono forme esplicite, che non facciamo fatica a riconoscere come tali, e includono atti come ignorare o umiliare la persona ma anche disprezzo, ricatti emotivi, svalorizzazione, colpevolizzazione. Sono le manifestazioni della violenza di genere che si collocano a metà dell’iceberg, tra proprio sotto la superficie dell’acqua.

Altre sono quelle che vengono definite le forme “sottili”, che difficilmente vengono riconosciute per quello che sono ma vengono minimizzate, nascoste dietro il “ma è sempre stato così” (e chi ha mai detto il contrario?!) e derubricate a goliardia, tradizioni, comportamenti “naturali”.

Sono la base dell’iceberg, difficile da vedere ma che sostiene tutto ciò che c’è sopra. Se per alcune forme c’è ancora una condanna abbastanza unanime – a esempio nei casi dell’annullamento e dell’invisibilità – alcune manifestazioni di violenza domestica espressioni di controllo, vengono spesso romanticizzate o classificate come espressione della natura umana: è il caso della gelosia, che siamo abituati a pensare come un sintomo di enorme amore ma altro non è che volontà di controllo ed esercizio di potere sull’altrǝ. O della violenza economica, una forma estremamente difficile da riconoscere proprio perché lontana dall’immaginario comune delle botte e dei lividi ma che si basa sul pregiudizio che sia l’uomo ad avere le redini delle finanze di casa e che la donna non abbia alcun potere in merito, e in cui la gestione economica diventa uno strumento di controllo.

Per non parlare, poi, delle altre forme della violenza di genere, così normalizzate da sembrarci non solo inevitabili, ma immutabili e, spesso, invisibili: la pubblicità sessista, che diventa un mezzo di rafforzare e diffondere gli stereotipi di genere che alimentano quelle “relazioni di potere storicamente diseguali tra uomini e donne” di cui parla la Convenzione europea, e il linguaggio sessista. Basta pensare alle ironie su schwa e asterischi, sui tentativi di creare un linguaggio inclusivo e sui femminili professionali, oltre alla permanenza di slur sessisti e misogini nella lingua che usiamo ogni giorno, per rendersi conto che, se è impossibile non guardare al dito dei femminicidi, rifiutarsi di vedere la luna della cultura maschiocentrica e patriarcale che ne è alla base è molto più facile.

La parte visibile dell’iceberg della violenza di genere

Sopra la superficie del mare ci sono le forme esplicite e visibili della violenza di genere. Molte sono quelle che ognunǝ di noi indicherebbe se dovesse fare degli esempi o dare una definizione: minacce, stupro, aggressione fisica e omicidio.

Ma ci sono anche le urla, gli insulti e le aggressioni verbali, forme dirette di quella violenza psicologica che a livello sottile o indiretto si manifesta, a esempio, attraverso la svalutazione del valore personale, biasimo, disprezzo, ricatti emotivi, silenzi punitivi.

Lo stupro e l’omicidio sono le forme estreme del sessismo. Sarebbe un errore, però, considerarle isolatamente, come se non fossero situate in una linea di continuità con le altre forme di violenza, ognuna delle quali affonda le radici in quello squilibrio di potere e in quella cultura patriarcale che per millenni non ha riconosciuto – e per certi aspetti stenta a farlo – la donna come persona. E che hanno alimentato la cultura dello stupro a causa della quale le donne sperimentano un continuum di violenza che spazia dai commenti sessuali e le molestie fisiche fino alla violenza sessuale e lo stupro stesso.

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