Economia

Esg: il mondo del Retail fatica a stare al passo

La prima edizione del Retail Esg Pulse Check fotografa una situazione deludente: in solo 3 settori (grande distribuzione alimentare, abbigliamento e ristorazione) il 75% delle aziende pubblica un bilancio di sostenibilità
Credit: Anna Dziubinska
Tempo di lettura 4 min lettura
22 dicembre 2023 Aggiornato alle 11:00

Esg è l’acronimo coniato nel 2004 da James Gifford, Head of sustainable & impact advisory di Credit Suisse, per unire sotto un unico tetto una serie di elementi virtuosi che corrispondono a Enviroment (l’impatto dell’attività dell’impresa sull’ambiente), Social (tutela dei diritti del capitale umano) e infine Governace (il rispetto delle buone pratiche nei processi decisionali della società). 3 elementi fondamentali su cui poggia una fitta regolamentazione in ambito europeo e internazionale, con una serie di nuovi compiti in capo a chi gestisce un’azienda, tutti all’insegna della trasparenza e della sostenibilità.

Per settore Retail intendiamo quella serie di attività imprenditoriali connesse alla vendita di beni o servizi direttamente al consumatore (dunque al dettaglio) per il suo utilizzo personale. Ne fanno parte i supermercati, ma anche aziende di servizi come catene alberghiere, bar, ristornati e così via. Una grande varietà di realtà imprenditoriali, tutte unite dalla medesima caratteristica: una scarsa maturità sul fronte delle tematiche Esg.

È ciò che emerge dal primo rapporto Retail Esg Pulse Check curato dall’azienda di consulenza Bain & Company: un “termometro” della maturità Esg all’interno del Retail italiano, che ne esce con carenze strutturali del monitoraggio dei criteri di sostenibilità e soprattutto “mancanza di obiettivi a medio-lungo termine, tra cui quelli science-based di decarbonizzazione”.

Il quadro è abbastanza critico, specialmente se pensiamo che parecchi operatori di una filiera che contribuisce al Pil italiano per il 13,7% «non hanno ancora pubblicato un primo bilancio di sostenibilità» specialmente, spiega Andrea Petronio, senior partner e responsabile della pratice Retail di Bain & Company in Italia, in settori come elettronica, arredo, drugstore e pet food.

Il focus è puntato sulla Gdo, acronimo di Grande distribuzione organizzata, un reticolato di aziende di vendita al dettaglio di prodotti alimentari e catene di supermercati racchiusi in un unico marchio. Forte del rincaro sui prezzi provocato dall’inflazione, la Gdo italiana ha chiuso il 2022 con 124 miliardi di euro di fatturato (in crescita del 6,6% sull’anno precedente) e, nonostante l’ancora forte distanza dai livelli dei competitor internazionali, presenta buoni risultati in termini di environment, investendo sulle rinnovabili, con riduzioni delle emissioni controllate dalle imprese e acquisto di energia per i consumi elettrici.

Condividono il podio (del 75% delle aziende che pubblicano il bilancio di sostenibilità) ristorazione e abbigliamento. Il primo, con un giro di affari di 75 miliardi di euro presenta un indice di disclosure (cioè trasparenza e chiarezza sui criteri Esg) del 76%, ma data l’elevata frammentarietà del settore emerge comunque “un grande gap in termini di misurazione di impatto complessivo”, soprattutto se confrontata con i competitor internazionali, che spiccano in biodiversità e lotta al divario salariale tra donne e uomini.

Sotto questo punto di vista è l’abbigliamento a brillare grazie a “un’ottima copertura dei Key Performance Indicator” ossia gli indicatori di sostenibilità che misurano il successo delle attività introdotte dalle aziende per ridurre al minimo le azioni negative sull’ambiente. Un primo posto dovuto, secondo Petronio, all’elevata esposizione internazionale di questo settore, considerato un vero fiore all’occhiello del Made In Italy e quindi sottoposto a una maggiore pressione mediatica.

Così come nei processi produttivi, anche la disciplina Esg è in continua evoluzione. Dal primo gennaio 2024 gli amministratori societari dovranno infatti compilare la Corporate Sustainability Reporting Directive (Csrd): un documento contenente dati interni e autovalutazioni sul rispetto delle tematiche ambientali, sociali, legate ai diritti umani e diversificazioni di genere nei componenti degli organi di governance, capace di fotografare in maniera dettagliata il livello di sostenibilità di tutte le società quotate e non con più di 250 dipendenti, lasciando fuori solo le microimprese.

È necessaria, conclude Petronio, una «trasformazione dei modelli di business per ridurre le esternalità negative dirette e indirette», in quanto e mai come adesso il rispetto dei criteri di sostenibilità rappresentano un punto cruciale nelle decisioni di investimento degli operatori dei mercati finanziari, oltre che dei consumatori al dettaglio.

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