Ambiente

Cosa sono i panevìn e cosa c’entrano con l’inquinamento

In alcune zone del Nord Est e dell’Emilia occidentale, il 6 gennaio si fanno grandi roghi, per bruciare metaforicamente il passato e abbracciare il futuro. Peccato che questa tradizione aumenti l’inquinamento dell’aria
Credit: Facebook
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Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
6 gennaio 2024 Aggiornato alle 11:00

Pignarûl, cabosse, panevìn, panaìn, panèra, capàn, pìroła-pàroła, vècia, fogherada e bubarata, foghèra, casèra, briolo, buriolo, brugnèlo, brujèo, bruja, burièl, fasagna. Non siamo impazziti e questo non è un incantesimo, ma i tantissimi nomi con cui è conosciuta, a seconda delle zone, una tradizione popolare diffusa soprattutto nell’Italia del Nord Est, ma anche nell’Emilia occidentale: quella dei falò di fine anno. Un’usanza che affonda le radici addirittura nell’epoca pagana pre-cristiana, ma che negli ultimi anni è stata messa in discussione – e talvolta vietata – a causa del suo impatto ambientale.

Generalmente i roghi vengono incendiati nella notte tra il 5 e il 6 gennaio, la vigilia dell’Epifania, durante la quale vengono bruciate grandi cataste di frasche e tralci, in cima alle quali viene spesso posto un fantoccio chiamato la “vecia”, che simboleggia l’anno vecchio che deve essere bruciato per fare spazio al nuovo. Spesso i falò sono benedetti dal parroco del territorio e utilizzati per predire il futuro nelle fiamme, grazie alla direzione delle scintille e del fumo. Peccato che questi fuochi - in cui talvolta bruciano anche materiali in plastica, pneumatici e legno trattato con collanti e solventi - siano accusati di contribuire a rendere il futuro meno roseo.

Questa tradizione, molto diffusa in tutta la zona del Nord Est, in particolare nelle province di Treviso e Venezia, dove prende il più noto nome di panevìn (pan e vin), infatti, sarebbe responsabile dell’aumento dell’inquinamento atmosferico e, in particolare, delle polveri sottili, in un’area in cui la qualità dell’aria è già critica.

Il dibattito attorno all’opportunità di proseguire una tradizione che potrebbe mettere in pericolo l’ambiente e le persone che lo abitano non è nuovo. Già 10 anni fa, il 6 gennaio del 2013, furono registrate concentrazioni di Pm10 circa tre volte più alte del limite giornaliero di 50 microgrammi per metro cubo d’aria in tutti i capoluoghi di provincia. Due anni dopo, le centraline dell’Agenzia regionale per la prevenzione e protezione ambientale del Veneto (Arpav) ebbero problemi nel misurare la concentrazione di polveri sottili. Il motivo? Erano superiori al livello massimo di registrazione.

Da diversi anni, quindi, alcune amministrazioni hanno preso provvedimenti, vietando i panevìn e i roghi di inizio anno nei loro territori. Una decisione che, però, non è stata unanime ma che, anzi, è stata contrastata proprio dal Presidente della Regione Veneto Luca Zaia, che nel 2016 aveva criticato le ordinanze e poi, accendendo uno dei più famosi roghi - quello di Arcade, un piccolo comune nella provincia di Treviso - aveva detto «ogni anno il primo gennaio inizia il solito cerimoniale, come se i panevin fossero la causa di tutti i mali. Qualcuno pensa che un metro e mezzo sia sufficiente. A me quello non sembra un panevin».

A distanza di anni, però, la situazione non è cambiata e sono le ordinanze a livello locale a proibire, limitare o consentire i roghi di inizio anno - o a cercare alternative più sostenibili, come i roghi digitali - mentre i livelli di polveri sottili Pm10 rimangono spesso fuori controllo nella Pianura Padana e nelle zone limitrofe.

Addirittura, quest’anno la tradizione verrà portata Oltralpe: il 6 gennaio 2024 il Panevìn si accenderà anche nella città francese di Auterive, grazie al gemellaggio con l’italiana Cordigliano. Non è la prima volta, però: da alcuni anni il dipartimento della Haute-Garonne vicino a Tolosa celebra questa ricorrenza.

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