Diritti

Il nonno del patriarcato: il paternalismo

Chi lavora nelle risorse umane, spesso, ha la presunzione di pensare che il lavoratore non sia in grado di prendere le decisioni migliori per la propria carriera. Un modo di pensare paternalistico che andrebbe estirpato
Credit: sour moha 
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23 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Nelle aziende, la gestione delle risorse umane è ancora intrisa di uno stucchevole e melenso paternalismo. Noi di HR (risorse umane) siamo ancora convinti che le persone non sappiano fare la scelta giusta, che abbiano bisogno di supporto (il nostro) per le decisioni che riguardano la carriera (la loro). Non abbiamo fiducia nella loro capacità di autodeterminazione, un po’ come quanto sosteneva Gramsci a proposito dell’approccio paternalistico manzoniano.

Riflettevo su questo aspetto (non su Gramsci e Manzoni, ma su quanto sia paternalistica la gestione HR) quando, alcuni giorni, fa mi sono imbattuto in un bellissimo libro, purtroppo ancora non tradotto in italiano, di Lucy Adams, ex direttrice del personale di importanti realtà come la Bbc. Nel libro HR Disrupted: it’s time for sometingh different, l’autrice giunge a una riflessione simile, prendendo in prestito la metafora del coat-hanger effect (effetto gruccia per cappotto). Avete presente quando arrivate in un hotel e combattete con le grucce per appendere il cappotto per colpa di quel sistema antifurto che impedisce di rubarle? Ecco, secondo Lucy Adams l’effetto in HR è analogo: per scongiurare qualche furto di grucce, diciamo a ciascuna e a ciascuno “non mi fido di te!”. Se non stessi attento, tu mi fregheresti.

Adams sostiene che siamo “maternalisti” quando pensiamo che i lavoratori abbiano bisogno di aiuto, che non possano farcela da soli, e per questo li aiutiamo e accudiamo. Ma siamo anche paternalisti, per questo inseriamo policy e pratiche per impedire che i lavoratori danneggino il posto di lavoro con il loro comportamento. Pensiamo che senza di noi non possano farcela o perché hanno costantemente bisogno di aiuto o perché - peggio - se lasciati liberi possano fare solo guai. Alla faccia della tanto decantata fiducia nelle persone!

Con la formazione si raggiunge l’acme del paternalismo. È l’azienda che rileva i fabbisogni - quelli bravi dicono i needs - e, sulla base di questi, sono definiti i piani di formazione che sanciscono quando e su cosa fare formazione. La persona non ha alcun livello di autonomia. Se venisse lasciata libera non saprebbe scegliere la propria formazione.

Invece, proviamo a immaginare un mondo in cui un lavoratore possa definire autonomamente come spendere le ore di formazione che gli richiede e offre l’azienda, potendo scegliere cosa e quando farla, i temi e il percorso. In altre parole, la stessa differenza tra la televisione anni 60 (in cui si vedeva tutti la stessa cosa) se confrontata con Netflix. Provate a proporre a un giovane nato alla fine degli anni 90 il modello “lunedì film”, e poi guardate la sua faccia. Con buona pace dei nostalgici.

In qualche modo, il paternalismo è figlio della ristrettezza e delle sue regole: “tutto è proibito finché non è permesso” e “noi sappiamo cosa è meglio per gli altri”.

Mentre il modello opposto, quello dell’egualitarismo ha regole dell’abbondanza: “tutto è concesso finché non è vietato”, oppure “voi sapete cosa è meglio per voi”.

Da una parte un modello top-down, di matrice gerarchica, dall’altro un modello bottom-up, di tipo collaborativo paritario. Il primo centrato sulla dinamica del potere, il secondo sul risultato condiviso.

Noi pensiamo di sapere cosa ci servirebbe per progredire nella nostra carriera ma pensiamo anche che l’altro non sappia farlo. Siamo tutti intrisi di paternalismo quando pensiamo che l’altro abbia per forza bisogno di aiuto e non possa essere autodeterminato. Siamo proprio noi gli alfieri (inconsapevoli?) del paternalismo su cui si innestano culture patriarcali. Non sarà il momento di spezzare questo incantesimo?

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