Ambiente

Cop28, per l’Italia è tempo di decidere: “all in” sulle rinnovabili?

Le indicazioni arrivate da Dubai sono chiare: inizio della fine dell’era fossile e azzeramento delle emissioni al 2050. La Penisola non ha le idee così limpide, nonostante ci siano le basi per una rivoluzione verde
Credit: EPA/MARTIN DIVISEK       

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14 dicembre 2023 Aggiornato alle 17:00

La Cop28 appena conclusa ci ha portato un regalo di Natale: una rotta per un mondo capace di smarcarsi dalla dipendenza delle fonti fossili.

Ci dice chiaramente che entro il 2050 dovremmo arrivare a zero emissioni, implementando da una parte le rinnovabili (da triplicare) e dall’altra iniziando a produrre e consumare meno combustibili fossili.

Ma ci dice anche, fra le righe dell’accordo, che ogni Paese tramite i suoi Ndc (piani nazionali climatici) già fra un paio d’anni dovrà avere maggiore ambizione nel tentativo di mantenere le temperature globali entro i +1,5 °C, un’ambizione commisurata4 a seconda delle condizioni socio economiche dei vari Stati.

Per centrare gli obiettivi, gli stati sono incoraggiati a puntare sulle tecnologie: in primis eolico, solare e idroelettrico ma anche, laddove “possibile”, nucleare, “combustibili di transizione” e cattura e stoccaggio di CO2 (nonostante le tante critiche a questo sistema).

Partendo da queste indicazioni, come si pone l’Italia verso un futuro a zero emissioni? Ovviamente il nostro Paese dovrà seguire la scia dell’Europa che, probabilmente già il prossimo febbraio, ribadirà l’impegno di un taglio delle emissioni al 90% entro il 2040. Significa che abbiamo poco più di quindici anni per fare “all in” su una rivoluzione che, seppur silenziosa, sta già accadendo: quella delle energie rinnovabili, dall’offshore eolico nei mari italiani sino al solare, l’agrovoltaico, le comunità energetiche che stanno ripartendo forte dopo lo sblocco della direttiva.

Non sarà semplice: secondo la direttiva Red III approvata dall’Europa nel 2030 dovremo soddisfare nell’Ue almeno il 42,5% della domanda di energia da fonti fossili, il che significa per l’Italia raddoppiare la propria penetrazione che è intorno al 20% e sono almeno 76 i GW di rinnovabili da installare in Italia dal prossimo anno sino al 2030.Questo significa investire, creare una filiera forte nel Paese (dalla produzione sino alle competenze umane), sburocratizzare ulteriormente, lavorare per mettere a terra le infrastrutture necessarie, superare le questioni di vincoli e veti e attirare più finanziamenti possibili anche dai privati.

Una sfida che, secondo un recente sondaggio Ipsos, gli italiani vorrebbero davvero: il 61% chiede infatti di accelerare sulla transizione energetica mettendo al centro le rinnovabili e abbandonando le fossili.

Questa rivoluzione, da centrare in 10-15 anni, chiesta dall’intesa di Dubai, dalle associazioni ambientaliste, i think tank sul clima e sostenuta anche dai cittadini, oggi però non è nella narrazione e visione portante del governo italiano.

Del resto la premier Giorgia Meloni ha ricordato più volte di voler rendere l’Italia un grande “hub” centrale del gas per il Mediterraneo. Questo grazie al Piano Mattei, che guarda alle fonti fossili in Africa, e anche agli accordi commerciali con il Paese che il prossimo anno ospiterà la Cop29, quell’Azerbaigian da dove arriva per noi il 16% del gas. Eppure il gas, e in particolare il Gnl, quello liquefatto, è un combustibile che impatta a livello di emissioni e il cui ruolo non ha trovato una specifica chiarezza nemmeno nei testi della Cop.

A Dubai si è parlato di una transizione anche attraverso - ma in maniera solo minore e opzionale - dei “combustibili di transizione” in cui, secondo le diverse interpretazioni, può rientrare anche il Gnl, sebbene questo non sia mai stato detto ufficialmente o specificato. Perché in fondo, la narrativa va sempre a seconda del contesto e dell’interpretazione.

A Dubai, mentre oltre 100 Paesi chiedevano il phase out dalle fonti fossili, per esempio Giorgia Meloni ai giornalisti presenti anziché ribadire il concetto di “hub del gas” ha iniziato a parlare di “hub delle energie pulite”. Oppure il ministro dell’Ambiente Gilberto Pichetto Fratin, che se n’è andato prima della conclusione dei lavori negli Emirati, salutando l’intesa della Cop non si è soffermato a parlare delle rinnovabili in Italia, ma piuttosto delle opportunità con un “ruolo chiave” (cosa mai detta alla Cop) di nucleare e persino biocarburanti (su cui il nostro Paese insiste).

Il timore è che questa triade di obiettivi mai veramente chiariti nel dettaglio - ovvero uso dei mini reattori nucleari in Italia, biocarburanti e neutralità tecnologica (a cui è legata anche il gas) - oggi siano la narrazione principale del governo per il futuro, anziché concentrarci - al fine di ottenere un vero taglio delle emissioni - sulle rinnovabili.

Se sui biocarburanti l’Europa continua a bocciare le proposte italiane e se la partita del gas continua a essere estremamente controcorrente rispetto a quanto richiede la visione mondiale, in attesa della fusione nucleare auspicata anche da Giorgia Meloni, il dibattito da noi per ottenere energia pulita appare oggi troppo incentrato su tecnologie che non abbiamo o hanno tempi lunghi prima di vedere la luce.

Stupisce, a esempio, che all’annuncio dell’accordo della Cop28 il vicepremier italiano Antonio Tajani abbia parlato di “tecnologia nucleare strategica” per l’azzeramento delle emissioni.

Nelle stesse ore in cui pronunciava queste parole, usciva la pubblicazione della mappa dei possibili luoghi in cui realizzare il deposito nazionale delle scorie nucleari, quelle che ci portiamo dietro ancora dagli anni Ottanta. Bene, appena pubblicato, sono fioccati “no” a ripetizione, dalla Sardegna sino alla Basilicata, perché per molti aspetti fa ancora paura.

In un’Italia priva da oltre trent’anni di questa tecnologia (bocciata due volte tramite referendum), davvero riusciremo a realizzare mini reattori in tempi brevi in modo da ottenere energia pulita? Oppure tra “no”, comitati nimby, opposizioni e ritardi i progetti atomici finiranno per fare una fine simile a quelli rinnovabili, rimasti incastrati troppo a lungo nelle maglie della burocrazia?

Domande a cui forse lo stesso governo, a seconda degli attori, dovrebbe provare a dare una risposta. Alla luce degli accordi di Dubai, è tempo di scegliere sotto quale bandiera principale stare: le rinnovabili - i cui costi oggi sono scesi anche del 40% rispetto alle infrastrutture necessarie per il fossile - oppure il gas che impatta a livello di emissioni o il nucleare che andrebbe ricreato da zero?

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