Ambiente

La sfida di CarpeCarbon: «Rendere la rimozione della CO2 un circolo virtuoso»

Cinque ragazzi italiani hanno fatto una scommessa: creare il primo impianto della Penisola per la cattura diretta di CO2. Giuliano Antoniciello e Chiara D’Adamo hanno illustrato il progetto a La Svolta
<b>Chiara D'Adamo</b>, ingegnere energetico, e <b>Giuliano Antoniciello</b>, Ceo di CarpeCarbon
Chiara D'Adamo, ingegnere energetico, e Giuliano Antoniciello, Ceo di CarpeCarbon
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11 dicembre 2023 Aggiornato alle 19:00

Tre giovani di Torino, un siciliano trapiantato a Milano e una ragazza di Isernia, la provincia più piccola d’Italia, hanno unito le forze e fondato CarpeCarbon, la startup che costruirà il primo impianto tutto italiano per la cattura diretta dall’aria di CO2.

Si sono da poco aggiudicati un finanziamento di oltre 1,7 milioni di euro da parte di Tech4Planet (CDP Venture), 360 Capital, Club degli Investitori e PiemonteNext per ultimare lo sviluppo della tecnologia proprietaria di cattura diretta dall’aria (DAC) e implementarla.

«È stato un viaggio lungo e tortuoso, alla partenza eravamo cinque co-founder, adesso siamo 11 e l’idea per il 2024 è aumentare ancora di più, è un percorso in crescita».

A parlare sono due di loro: Giuliano Antoniciello, Ceo, fisico e astronomo che si sta occupando sia dello sviluppo tecnologico sia del coordinamento della progettazione dell’impianto-pilota, e Chiara D’Adamo, ingegnere energetico, operations manager, impegnata su carbon credits, carbon market, relazioni internazionali e lobbying politica.

La vostra startup sboccia anche da scelte di vita personali cruciali. Giuliano, com’è nata?

È una storia che viene da lontano. Ho cominciato a lavorare all’idea quando stavo facendo ancora il dottorato all’Università degli Studi di Padova. A un certo punto mi sono detto che era una buona idea e poteva fare la differenza, quindi ho buttato il cuore oltre l’ostacolo, ho deciso di fare una scommessa importante - alla fine è veramente un all in -, lasciando la carriera accademica per dedicarmi interamente a questo progetto.

Ho iniziato a mettere insieme il team di CarpeCarbon: è stata un’attività impegnativa, che ha richiesto quasi tanto tempo quanto lo sviluppo della tecnologia, perché per una cosa del genere ci vogliono le persone giuste e devo dire che oggi sento di aver avuto molto successo. Abbiamo un team straordinario.

Chiara, come ti sei unita a CarpeCarbon?

Prima ho lavorato a Parigi all’Agenzia internazionale dell’energia. Mi occupavo dei vari scenari climatici ed energetici, facevamo tutti gli studi per capire come effettivamente si poteva arrivare alle emissioni zero nel 2050. L’ho fatto per tre anni. Guardando tutte le proiezioni future, si deduceva che non c’era uno scenario in cui era possibile arrivarci senza rimuovere la CO2 dall’atmosfera. Quindi ho detto ok, basta fare report, basta dare consigli: i dati li abbiamo analizzati, le policy anche. Se dobbiamo farlo, facciamolo in modo efficiente. Così mi sono unita a Giuliano e agli altri.

Giuliano, in cosa consiste la vostra tecnologia proprietaria “Direct Air Capture” (Dac)?

Devo fare una distinzione. Il Ccs (Carbon Capture and Storage) e la Direct Air Capture si assomigliano molto ma in realtà hanno scopi e metodi diversi. Quello di cui si è sentito parlare di più finora, il Ccs, significa sostanzialmente ridurre le emissioni nel punto in cui vengono prodotte: infatti vengono chiamate point-source capture. Nel migliore dei casi il Ccs porta il bilancio di emissioni a zero: è come mettere un grosso filtro sulla ciminiera dell’impianto che produce quelle emissioni.

Invece il carbon dioxide removal (Cdr) è la rimozione della CO2 atmosferica: quello che facciamo noi con la Dac è uno dei metodi di questo ventaglio di opzioni. Implica rimuovere la CO2 derivante da emissioni già avvenute in passato. Nella peggiore delle ipotesi il loro risultato netto è zero, ma nella realtà ha un segno meno davanti. La rimozione della CO2 non avviene nel punto in cui questa viene immessa nell’atmosfera, quindi non c’è un filtro sulla ciminiera di una fabbrica, ma semplicemente si filtra la stessa aria che stiamo respirando noi in questo momento.

Non è un compito facile, no?

Sono 420 parti per milione, cioè una molecola ogni 2.400 circa - tante sul piano climatico, poche su quello fisico -, e questo alla fine porta ad avere grossi consumi energetici. Bisogna lavorare tanta aria con processi chimico-fisici molto complessi per riuscire ad avere un quantitativo rilevante di CO2 effettivamente rimossa dall’atmosfera. Ora i grandi consumi energetici sono ciò che limita lo scale-up di queste tecnologie.

Noi abbiamo sviluppato un sistema che risolve esattamente questo problema, cioè abbatte il consumo energetico della DacC: possiamo filtrare grandi quantità d’aria utilizzando molta meno energia di quello che fanno le tecnologie attualmente esistenti e consentendo di offrire dei costi per tonnellate di CO2 catturata molto inferiori a quello che è lo standard attuale. Oggi una tonnellata di CO2 rimossa con Dac costa in media circa 1.100$. L’obiettivo è arrivare a 100, perché questo è il costo che permette di aumentare di molto gli ordini di grandezza, di quelle famose 100.000 volte rispetto alla produzione di emissioni negative.

Ce la farete?

Noi siamo convinti di riuscire a farlo così bene che, se tutto va come previsto, il nostro impianto può lavorare completamente scollegato dalla rete elettrica e senza la necessità di dover produrre in loco grandi quantità di energia (rinnovabile, ovviamente). Questo significa che in un colpo solo ci siamo liberati della dipendenza da supply chain molto complesse e spesso fragili, che stanno alla base della produzione di energia rinnovabile, e dall’altra parte abbiamo disaccoppiato il problema della rimozione della CO2 atmosferica da quello della transizione energetica.

Tutti questi discorsi infatti hanno un senso se passiamo dalle attuali 35 miliardi di tonnellate l’anno di emissioni nette di CO2 a zero: è il famoso scenario net zero e questo deve avvenire da qua al 2050 per rispettare gli obiettivi climatici dell’accordo di Parigi. Avvenuto questo, non sarà ormai più sufficiente arrivare a zero, bisognerà rimuovere attivamente grandi quantità dall’atmosfera. Lo si può fare grazie a tecnologie come la nostra. Naturalmente però non possono entrare in competizione le due cose, perché altrimenti sottraiamo materiali e risorse alla condizione necessaria per poter operare, che è quella di fare la transizione energetica, cioè di passare dalle fonti fossili alle rinnovabili.

Dopo aver ottenuto i finanziamenti, come andrà avanti il progetto del primo impianto tutto italiano per la cattura diretta dall’aria di CO2?

Dobbiamo concludere la progettazione per dimostrare la fattibilità della tecnologia. Sappiamo che le diverse componenti dell’impianto prese singolarmente funzionano. La scommessa è capire come agiscono nelle condizioni del mondo reale, per sapere che cosa bisogna regolare, così da poter poi fare uno scale-up rapido: abbiamo bisogno di passare dalle 10.000 tonnellate annue del 2022 al miliardo di tonnellate annue nel 2050.

Qual è il vostro obiettivo in questa fase?

Adesso vogliamo dimostrare che funziona non solamente su scala di laboratorio. Per fare questo stiamo cercando di costruire l’impianto pilota. Dovrebbe sorgere vicino a Torino, in cui effettivamente misureremo a posteriori. A priori, ci sono i calcoli e le simulazioni. Poi ci saranno delle misurazioni che ci diranno di più sul funzionamento, i consumi e l’impatto: a quel punto saremo in grado di progettare impianti su scala commerciale, quindi molto grandi, da decine o addirittura centinaia di migliaia di tonnellate l’anno.

L’impianto pilota potrebbe sorgere anche da qualche altra parte?

Potrebbe. Idealmente ora stiamo lavorando pensando a un impianto tarato sulle condizioni climatiche della Pianura padana occidentale per varie ragioni: ci consente di avere un ampio range di condizioni meteorologiche per testare il funzionamento della nostra tecnologia. Non è escluso che ci renderemo conto che il luogo migliore è un altro. Per ora l’opzione migliore sembra essere Torino, però non è un dogma.

Quali sono i prossimi passi e che tempi vi siete dati?

Oltre a completare la progettazione dell’impianto pilota, navigheremo attraverso tutto il sistema di autorizzazioni legali che servono per costruire fisicamente un impianto di questo tipo. Non è uno scherzo, perché per la legge italiana non esistono strutture che invece di emettere CO2 la catturano. Di lavoro da fare anche nei confronti del legislatore ce n’è veramente tanto, però - se tutto va come deve - tra circa un anno saremo in grado di avere un sito adatto, tutta la procedura di autorizzazione completata e il progetto in mano per mettere la prima pietra dell’impianto.

Naturalmente ci sono anche altre cose che devono avvenire nel frattempo. È un processo molto complesso, quindi ci sono delle componenti che adesso sono disponibili sulla scala del laboratorio e per le quali invece noi abbiamo bisogno di grandi quantità. Quindi bisogna aiutare chi le produce a programmare uno scale-up della produzione, tutte queste cose devono avvenire in parallelo, però abbiamo le persone giuste nel team per farlo.

L’obiettivo finale è fare in modo che gli impianti con la vostra tecnologia siano installabili ovunque ce ne sia bisogno?

Sì. Dato che l’atmosfera è la stessa per tutti e che possiamo operare off grid, possiamo anche immaginare di progettare e costruire i nostri impianti dove ci sono le condizioni più favorevoli e dove siamo il più vicino possibile ai luoghi in cui poi avviene la parte finale del ciclo, perché - una volta catturata - questa CO2 va effettivamente rimossa e per rimuoverla si può fare essenzialmente una cosa sola, cioè mineralizzarla, iniettarla in particolari formazioni geologiche in cui avvengono reazioni chimiche spontanee.

Per cui sostanzialmente la CO2 nell’arco di alcuni mesi o un paio d’anni si lega alle rocce che compongono queste formazioni geologiche, si formano dei minerali, dei carbonati tecnicamente, che sono la forma più stabile in cui si può trovare la CO2 sulla crosta terrestre. Quella CO2 effettivamente è rimossa per sempre dell’atmosfera, è inerte e non si muoverà mai più. Non sono noti processi geologici che la riportano in superficie. Di fatto quello che facciamo è chiudere il ciclo del carbonio che era stato aperto bruciando i combustibili fossili.

Chiara, in che senso ti occupi di lobbying politica?

Sono soprattutto le istituzioni europee a dover riconoscere l’importanza dei carbon credit. È ciò che permette alle aziende di poter dire che sono a emissioni zero: comprano i crediti che permettono di dimostrare che hanno compensato le loro emissioni e questa cosa in futuro dovranno farla anche i governi. Dunque si tratta di far passare una cosa da volontaria, come è al momento, a obbligatoria.

Infatti ti occupi anche di carbon market e relazioni internazionali. A che punto siamo in Europa sulla decarbonizzazione?

C’è tanto da fare. Oggi l’unico mercato in cui effettivamente si acquistano e si vendono carbon credit è quello volontario: immaginiamo l’Amazon di turno che compra i crediti per dire di essere net zero, o qualsiasi azienda grande e piccola; al momento invece non ci sono ancora regole per il mercato obbligatorio. L’Europa in questo è più avanti rispetto ad altre parti del mondo, però è comunque vincolata a quello che si deciderà a livello globale.

Alla Cop28 si stanno discutendo le linee guida che poi regoleranno cosa si intende per carbon credit, perché anche su questo c’è tanta discussione: piantare gli alberi tecnicamente viene definito un carbon credit, il problema è che non rispettano i criteri per risultarne veramente efficace. Quindi il 97% dei carbon credit che attualmente viene venduto sono carbon asset: vengono da progetti di riforestazione e simili.

Il tema è che ci sono state diverse inchieste, soprattutto quest’anno da parte del Guardian e altri giornali, che hanno dimostrato che erano solamente crediti fantasma, nel senso che queste foreste in realtà non erano a rischio, quindi si stava spacciando come un impegno ambientale e climatico cose che naturalmente sarebbero comunque accadute. Onde evitare questo, per spostarsi sul mercato obbligatorio, bisogna essere super cauti. Si sta cercando di evitare di considerare questi come carbon credit.

Che cosa servirebbe allora?

Abbiamo bisogno di soluzioni tecnologiche che siano il più possibile oggettive. La nostra, così come tutte le Dac, ha numerosi vantaggi: la CO2 è davvero misurabile e verificabile da chiunque. I carbon credit verificabili, detti di alta qualità, attualmente sono pochissimi. La domanda che c’è per questi carbon credit è molto più alta dell’offerta proprio perché è un settore emergente e perché i costi sono alti: se vuoi togliere la CO2 dall’atmosfera, devi filtrare tantissima aria, ti serve tantissima energia e i costi sono esorbitanti.

È questa la nostra scommessa: se riusciamo ad abbassare tutti i costi, il prezzo si abbassa e diventa automaticamente più scalabile, così più aziende e più governi possono effettivamente acquistarli. Adesso in Europa c’è un sistema per cui tu paghi effettivamente le tue emissioni, non in tutti i settori, ma anche questo aspetto si sta espandendo. Il numero dei 100$ a tonnellata in questo ambito si ripete all’infinito perché è connesso alla carbon tax e domani consentirà di compensare il costo dei carbon credit. Quindi diventa un mercato vero e proprio ma anche un circolo virtuoso, per cui speriamo di riuscire a riparare i danni che abbiamo fatto in passato.

Giuliano, come possiamo immaginare il futuro della rimozione di CO2?

Per rispettare gli obiettivi dell’accordo di Parigi, entro la fine di questo secolo dovremmo aver filtrato il 20% di volume della nostra atmosfera, una quantità enorme. Serve effettivamente un reale salto tecnologico rispetto a quello che esiste oggi ed è ciò che noi stiamo provando a fare. Prima o poi la rimozione della CO2 atmosferica sarà considerata come un altro servizio di gestione e smaltimento dei rifiuti. Ciò che si è accumulato nell’atmosfera perché non abbiamo gestito questo rifiuto per così tanto tempo dovrà essere trattato e smaltito.

La CO2 può essere riutilizzata in qualche modo?

La cosa interessante è che si può anche creare, generare del valore in altro modo dalla CO2 perché in un mondo che va verso il net zero, cioè in cui tutte le attività e soprattutto quelle produttive devono diventare a bilancio nullo di carbonio, la CO2 può diventare una componente essenziale di molte lavorazioni industriali, proprio come materia prima. In particolare la CO2 supercritica in forma liquida ad alta pressione è un’eccellente solvente chimico: viene già oggi utilizzato per esempio per prodotti decaffeinati. Lavazza ha il brevetto di questo processo.

Viene ottenuto facendo passare questo flusso di CO2 supercritica e si rimuove la molecola di caffeina dal chicco di caffè. Poi si può utilizzare anche per riciclare le batterie dei veicoli elettrici, le batterie al litio ma si può utilizzare in ambito food and beverage, ci si fa l’acqua gasata e la birra, ci si fanno i combustibili sintetici per l’aviazione civile, dove c’è un grosso problema. L’idea generale per quanto riguarda i trasporti e la decarbonizzazione è passare all’elettrificazione, però la densità di energia delle batterie è molto più bassa di quella dei combustibili liquidi come il cherosene.

E allora ti servirebbe una massa enorme di batterie o a quel punto l’aereo non vola più. Un’idea potrebbe essere produrre questi combustibili sintetici sempre liquidi però net zero, cioè utilizzando il carbonio e la CO2 catturata dall’atmosfera. E poi c’è anche il mercato della produzione di metanolo che è un altro combustibile liquido che può usare le stesse infrastrutture usate oggi per i combustibili fossili: sembra una buona soluzione per accelerare la decarbonizzazione. Ci sono tanti usi che si possono fare della CO2, anche se l’obiettivo principale è la rimozione, cioè arrivare al punto in cui puoi trattarla come un rifiuto e smaltirla nel modo corretto, mettendola dove non darà più problemi fino alla prossima era geologica.

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