Culture

“Palazzina Laf”: storie di mobbing italiano

Diretto da Michele Riondino, il film è ambientato nel 1997 e racconta le vite di «79 lavoratori altamente qualificati costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito “una specie di manicomio”», ha spiegato il regista
Credit: Maurizio Greco
Tempo di lettura 5 min lettura
13 dicembre 2023 Aggiornato alle 16:00

«Questo film vuole essere una sorta di affresco sociale, non vuole raccontare quello che succede oggi a Taranto, ma quello che oggi viviamo è sicuramente frutto del disinteresse di chi nel 1995 ha sacrificato un’intera città sull’altare del proprio capitale».

È essenziale partire da queste parole di Michele Riondino per parlare del suo esordio alla regia, Palazzina Laf, uscito il 30 novembre. Ciò che siamo oggi, come generazione e non solo, è frutto degli anni precedenti, di ciò che è stato fatto e non fatto, così come delle ceneri, dei “fantasmi del passato” che ancora ci parlano (ne è un esempio Aldo Moro, non solo come politico ma come essere umano e ce lo ha dimostrato Marco Bellocchio in Esterno Notte e ce lo ribadisce Fabrizio Gifuni in quello che ama chiamare “esperimento teatrale”, Con il vostro irridente silenzio).

Ecco l’arte che ci apre gli occhi e che ci fa conoscere le storie: questo debutto dietro la macchina da presa di Michele Riondino appartiene a questo approccio. Non lo si vuole etichettare (nell’accezione negativa del termine) sotto la categoria “cinema impegnato”, ma dare atto che molto probabilmente senza questo film la maggior parte di noi non conoscerebbe quella che è stata definita dallo stesso regista «la storia di uno dei più famigerati “reparti lager” del sistema industriale italiano. È la storia di un caso giudiziario che ha fatto scuola nella giurisprudenza del lavoro. 79 lavoratori altamente qualificati costretti a passare intere giornate in quello che loro stessi hanno definito in tribunale “una specie di manicomio”. Per la prima volta il confino in fabbrica fu associato a una forma sottile di violenza privata e per merito di questa sentenza un termine ancora non riconosciuto dal nostro ordinamento giuridico fu finalmente introdotto. Quello della palazzina Laf fu il primo caso di mobbing in Italia. Tutti i fatti narrati nel film sono frutto di interviste fatte a ex lavoratori Ilva, ex confinati, e i passaggi finali sono dettagliatamente presi dalle carte processuali che hanno determinato la condanna degli imputati e il risarcimento delle vittime».

Il lungometraggio è ambientato nel 1997; conosciamo subito Caterino (lo stesso Riondino, molto credibile tanto da non pensare al “ruolo” nell’accezione tecnica), che sembra farsi scorrere la vita davanti. Vive con la giovanissima fidanzata in una masseria fatiscente: entrambi desiderano trasferirsi in città. Già dal percorso per andare in fabbrica, lo spettatore ha modo di cogliere la routine, che logora in alcuni mestieri più di altri.

Qualcosa sembra poter cambiare quando i vertici aziendali decidono di proporre a Caterino la parte di spia per individuare i lavoratori di cui sarebbe bene liberarsi. La promessa (e anche certe azioni, come la concessione della macchina aziendale) di uno standard di vita migliore lo porta a dire sì. È come se trasmettesse quasi un’ingenuità (non giustificabile) nel pedinare i colleghi, nel segnalarli, tanto che, non essendo a conoscenza del degrado in cui versano alcuni ma pensando addirittura di essere “promosso” a una situazione migliore, chiede di essere collocato anche lui alla Palazzina Laf, dove alcuni dipendenti, per punizione, sono obbligati a restarvi privati delle loro consuete mansioni.

Senza aggiungere altro riguardo l’iter di consapevolezza che Caterino (e il pubblico) compie (si potrà scoprire solo guardando il film in sala), è importante però rilanciare le parole del giornalista e scrittore Alessandro Leogrande, che avrebbe dovuto co-firmare la sceneggiatura con Riondino e Maurizio Braucci. “Purtroppo, durante la lavorazione, è venuto a mancare e dunque, anche per questo, il film vuole essere un omaggio alla sua opera. La stessa indagine sui reparti lager è una delle produzioni di Alessandro”, si legge dalle note di regia.

“Ai lavoratori confinati” non è chiesto di produrre, ma di trascorrere le giornate senza fare niente, guardando il soffitto o girandosi i pollici, fino a quando quel lento, prolungato stato di inazione non diventa una forma estrema estrema di violenza contro la propria mente e il proprio corpo”, scriveva Leogrande.

L’asciuttezza della regia, la qualità del cast nell’incarnare tutto ciò (tra gli interpreti troviamo Vanessa Scalera, Gianni D’Addario, Michele Sinisi, Marina Limosani) anche attraverso la chiave, a volte, dell’ironia, fa conoscere ciò che è stato e ciò che può essere ancora, ma pone anche alcuni interrogativi: come ci sentiremmo se ci venisse tolto ciò per cui abbiamo studiato?

Qualcuno direbbe che, per le tante concause, spesso si è “costretti” ad adattarsi pur di lavorare; ma se si venisse assunti per ciò che si sa fare e, da un momento all’altro, ci si ritrovasse a “timbrare il cartellino” senza poter più mettere a frutto le proprie competenze, come ci si potrebbe sentire?

Basterebbe “lo stipendio” a mettere a tacere l’essere umano trattato come macchina (se non peggio)?

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