Un murale del progetto di street art "Trust" a Taranto.
Un murale del progetto di street art "Trust" a Taranto.
Città

Salvare Taranto per salvare l’Italia

La fabbrica ex Ilva che dal 1965 rifornisce d’acciaio l’Italia è anche tra i luoghi più inquinati al mondo. Lo raccontano qui i comitati dei cittadini e le decine di inchieste, rapporti, decreti che hanno segnato la storia di una città e dei suoi lavoratori. Un simbolo industriale avvelenato, “benedetto” persino da un Papa
di Silvia Giagnoni
Tempo di lettura 14 min lettura
19 aprile 2022 Aggiornato alle 09:00

Su un muro del quartiere Tamburi, il più vicino alla Fabbrica, situato a soli 250 metri dalle acciaierie, c’è una targa che riporta questa scritta: Nei giorni di vento Nord Nord-ovest veniamo sepolti da polveri di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale “Ilva” Per tutto questo gli stessi “maledicono” coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare. I cittadini di via de Vincentis – Lisippo – Troilo – Savino, agosto 2001.

È “la targa della maledizione:” è stata sostituita qualche anno fa perché non si riusciva più a leggere quello che c’era scritto, anch’essa ricoperta dalla polvere rossa dell’Ilva, così come le tombe del limitrofo cimitero, i guardrail, le strade, i muri. La polvere si appiccia ai polmoni e nei cosiddetti “wind days” le scuole del quartiere sono chiuse su ordinanza municipale. Il “primo” giorno di vento fu il 24 ottobre del 2017, a seguito del quale nacquero i Tamburi Combattenti, un movimento spontaneo, apartitico, di cittadine e cittadini, genitori soprattutto, ex lavoratori e lavoratrici Ilva, cassintegratə, che si battono per il diritto alla salute (la maggioranza di lavoratorə delle acciaierie oggi non vivono a Taranto, provengono dalla provincia ma anche da Bari, Matera, Altamura).

Celeste Fortunato ne fa parte dall’inizio. “Quante battaglie abbiamo fatto,” mi racconta amareggiata. Una di queste era proprio per ottenere gli impianti di ventilazione meccanica nelle scuole del quartiere e poterle così tenere aperte. Solo che, sebbene siano stati da poco finalmente collaudati, le scuole di Tamburi continuano a essere chiuse nei wind days, quando il vento cioè soffia a più di 25 km/h. Restano in attesa dell’autorizzazione comunale. Ma la città è in mano al commissario prefettizio - da cui non ricevo alcuna risposta sulla questione - da novembre scorso, quando il Sindaco Rinaldo Melucci è stato sfiduciato. Non è la prima volta per Taranto. Già nell’agosto del 1999 il Consiglio Comunale era stato sciolto a seguito della rottura tra il sindaco De Cosmo e il suo ex padrino, il leggendario Giancarlo Cito.

Quindi, fino alle nuove elezioni di giugno, tutto è fermo. La vita, però, va avanti per chi a Tamburi ci abita.

Un anno fa a Celeste Fortunato è stata diagnosticata la leucemia. Parliamo mentre si trova ricoverata presso il reparto di Ematologia dell’ospedale San Giuseppe Moscati. Fortunato mi dice come siano spesso le iniziative di privatə a fare la differenza. Come quella di Nadia Toffa, a cui è intitolato il reparto di Oncoematologia Pediatrica dell’Ospedale SS. Annunziata. Toffa, la giornalista de Le Iene, scomparsa nell’agosto del 2019, è cittadina onoraria di Taranto per le sue inchieste sull’inquinamento e la raccolta fondi per curare bambinə malatə tarantinə.

Parlando di Tamburi, mi dice: “Nel quartiere ci sono stati altri problemi, come il gas radon e le collinette ecologiche”. Quest’ultime, costruite una quarantina di anni fa “per proteggere il quartiere” sono state sequestrate nel febbraio 2019 perché venivano di fatto utilizzate come discarica - contengono loppa e scorie di lavorazione d’altoforno. Anche la recente copertura dei parchi minerali, con due strutture di 700 x 500 metri, non è stata sufficiente a impedire che il polverone si alzi sulla città nei wind days. Adesso, Fortunato con il marito e il figlio non abitano più nel quartiere, e il bambino frequenta le scuole elementari altrove. La maggioranza delle persone di Tamburi, però, non riescono a fuggire perché le case sono estremamente svalutate. Chi vorrebbe venire ad abitare nel rione della morte?

Dall’Italsider ai 13 decreti salva-Ilva

Eppure, Tamburi un tempo era noto proprio per l’aria salubre. “Sarebbe un bel quartiere, con un bell’affaccio sul Mar Piccolo,” mi dice Celeste con amarezza. Nel 1959 fu però deciso di costruire la più grande acciaieria d’Europa proprio appiccicata al rione, qui a Taranto, per via della natura pianeggiante del territorio e perché la città aveva già un grande porto e una struttura industriale limitrofa.

Prima dell’Italsider, i governi liberali e poi fascisti avevano consegnato Taranto, un tempo capitale della Magna Grecia, alla Marina Militare - erano stati infatti costruiti l’Arsenale e la cantieristica navale. Nel 1965, viene dunque inaugurata la Fabbrica, che porterà a un picco di ben 43.000 posti di lavoro tra diretti e indotto nel 1980, anno in cui il IV Centro Siderurgico arriva a produrre il 79% dell’acciaio nazionale. Persino Paolo VI celebra la Messa di Natale del ’68 all’Italsider, tentativo di riavvicinare la Chiesa al mondo operaio, e un quartiere tarantino porta proprio il nome di quel Papa.

Ci furono errori nello sviluppo dello stabilimento, a cominciare dal raddoppio che non puntò sulla colata continua, come scrive Elio Cerrito nei Quaderni di Storia Economica, e che fu il risultato del trasferimento dell’area a caldo da Genova a seguito delle proteste contro l’inquinamento. Proteste che portarono a un trasferimento del problema al Sud. La privatizzazione del colosso dell’acciaio comincia anche qui come a Piombino nel 1993 e si conclude con la cessione alla famiglia Riva nell’aprile del 1995. Secondo quanto raccontava della sua città Alessandro Leogrande, riprendendo l’espressione coniata dal giornalista Walter Tobagi, a Taranto non si è mai formata una classe dirigente locale, né tantomeno operaia. S’impose, invece, l’operaio-massa, o meglio, la figura del “metalmezzadro,” che, secondo Leogrande, non acquisisce mai coscienza della propria nuova posizione nel sistema militare industriale.

Qui, più che altrove, il sistema degli appalti ha mostrato il suo lato più corrotto e lesivo dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori, a cominciare proprio dalla sicurezza. L’indotto non è mai stato espressione di una piccola e media classe imprenditrice perché di fatto non esisteva una “cultura industriale” né è stato fatto niente affinché si sviluppasse. Piuttosto, la monocultura dell’acciaio ha portato all’imporsi di un’idea che non potesse esserci altra crescita all’infuori dell’ex Ilva, portando persino Nichi Vendola, quando era Presidente della Regione nel 2010, a definirla “il polmone produttivo della Puglia,” un’espressione quanto meno infelice considerato le migliaia di morti per malattie all’apparato respiratorio.

Il Big Bang di Taranto avviene di fatto nel 2012, quando la Magistratura impone la procedura di sequestro dell’area a caldo dell’ex Ilva, per poi essere invalidata per via governativa con la concessione della facoltà d’uso nel dicembre dello stesso anno. In ottobre, viene promulgata una nuova Autorizzazione integrata ambientale (la prima risale al 2011), che fissa limiti e standard produttivi che l’acciaieria deve rispettare per uniformarsi alle decisioni della Commissione europea in materia di migliori tecniche disponibili da impiegare per la produzione di ferro e acciaio. Tra queste, la copertura dei parchi minerali (appunto), la sostituzione di alcune batterie della cokeria e modifiche sostanziali agli impianti di agglomerazione e sugli altoforni. Nel 2012 avviene anche una grossa scissione nella Fiom che poi porterà alla nascita dell’USB e di Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti e che il 2 agosto 2012 bloccano il comizio di Landini e Camusso in piazza della Vittoria.

Tanto è successo in questi 10 anni, ma soprattutto sono stati emanati ben 13 decreti “salva-Ilva,” da sei governi diversi, fino alla concessione dell’immunità penale all’azienda, che è di fatto una licenza a continuare a produrre. Non sorprende che la sensazione che ho parlando con attivistə dei vari comitati cittadini sia di sfiducia, disillusione, stanchezza. Di fatto, mancano interlocutorə nazionalə per produrre il cambiamento da loro richiesto.

Le indagini ambientali e le operazioni di bonifica

Già nel novembre del 2008, anno in cui viene trovata la diossina nel formaggio prodotto nelle masserie a meno di un chilometro dalla Fabbrica, il coordinamento di associazioni e cittadinə Altamarea contro l’inquinamento porta in piazza 20.000 persone. È dunque dalla società civile che a partire dalla fine degli anni ‘90 comincia l’azione di d’indagine e monitoraggio del sistema di smaltimento dei rifiuti e dell’inquinamento industriale (per tanto tempo, a Taranto si pensava addirittura che piccole dosi di inquinamento potessero immunizzare i bambinə).

Altamarea espone davanti alla Camera la propria azione, inclusa la richiesta che l’acciaieria si doti dell’Aia, secondo le normative europee. Nel 2011, la diossina viene trovata in quantità anche superiori al 70% rispetto ai limiti consentiti anche nelle cozze, orgoglio tarantino. Nel 2013, Taranto Futura promuove un referendum cittadino che chiede la chiusura della Fabbrica - è solo consultivo e non raggiunge il quorum. Nello stesso anno, il Ministro Orlando evita la chiusura dello stabilimento per decreto nonostante la famiglia Riva sia inadempiente. Poi arriva il Commissariamento (2013-14) e la vendita ad ArcerolMittal nel 2017; dal 2021 lo Stato è subentrato con Invitalia a fianco dell’azienda nella gestione delle acciaierie. Ma i termini dell’accordo e l’impianto neoliberista delle politiche statali non prospettano al momento una gestione pubblica dell’azienda che tuteli salute, ambiente e diritti delle lavoratrici e dei lavoratori.

Le operazioni di pulizia e bonifica dovevano cominciare nel 2021, ma sono state rinviate al 2023, nonostante l’Italia sia stata condannata anche dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per aver violato la vita privata e familiare di cittadini (art. 8 della Convenzione Europea dei Diritti Umani) e il diritto a un rimedio efficace (art.13). Un ricorso questo promosso dal comitato tecnico per la tutela della salute pubblica, Legamjonici attivo dal 2010 (prima come Taranto Libera) e che da sempre sostiene la chiusura della Fabbrica. Una grande vittoria contro coloro che ancora negavano quel che stava succedendo, spiega per conto del comitato Daniela Spera, dottoressa in Chimica farmaceutica e giornalista ambientale.

Tra gli altri, i dati contenuti nel Quinto Rapporto SENTIERI per il sito di Taranto ci dicono che esiste un eccesso di rischio per la contrazione del tumore del polmone, per il mesotelioma e altre malattie dell’apparato respiratorio. In età giovanile, si evidenzia un eccesso del 70% per incidenza dei tumori della tiroide, specie tra le donne. Le bambine e i bambini natə con malformazioni sono statə 600 rispetto a una media regionale, con un eccesso del 9%. Ma sono sottostimati, mi fa notare Spera, perché non tengono conto degli aborti spontanei. Inoltre, nel periodo 1995-2009 il Rapporto evidenzia un eccesso nella mortalità generale del primo anno di vita del 21%. I tumori maligni infantili che si riferiscono alla provincia di Taranto manifestano un eccesso d’incidenza di oltre il 30%. Si parla di migliaia di morti negli anni per malattie cardiovascolari e respiratorie, tra cui anche bambinə, come il recente caso-simbolo di Lorenzo Zaratta, 5 anni, colpito da un tumore al cervello. Le perizie degli esperti hanno individuato nell’encefalo del bambino polveri, particelle metalliche, residui di combustione e fibre ceramiche riconducibili all’inquinamento causato dal colosso siderurgico.

Il relatore speciale delle Nazioni Unite ha confermato di recente che l’ex Ilva ha compromesso la salute delle cittadine e dei cittadini. È la prima volta che l’ONU si esprime su Taranto, “sito di interesse strategico nazionale” ma anche tra i luoghi più inquinati del mondo. Nel febbraio 2020, il sindaco di Taranto, Rinaldo Melucci, ordina la chiusura dell’area a caldo della fabbrica per gravi motivi ambientali, confermata poi dal Tar di Lecce ma annullata dal Consiglio di Stato. Il Tar afferma che il rispetto dei parametri emissivi previsti dall’Aia non basta a garantire “l’esclusione del rischio o del Danno Sanitario.”

È del 31 maggio 2021, nel processo per disastro ambientale dell’Ilva (“Ambiente Svenduto”) arrivano le condanne a 22 e 20 anni di reclusione per Arturo e Nicola Riva, figli dell’ex proprietario Ilva morto nel 2014, Emilio, e 21 anni e 6 mesi al responsabile dei rapporti istituzionali, Girolamo Archinà e sempre 21 all’ex direttore di stabilimento Luigi Capogrosso; tre anni e mezzo a Nichi Vendola per concussione aggravata in concorso.

Il Piano per la riconversione

Nonostante tutto ciò, Acciaierie d’Italia resta “l’unico stabilimento italiano a ciclo integrale che produce acciaio primario (direttamente da minerali ferrosi), ”con l’obiettivo di aumentare la produzione entro il 2025 a 8 milioni di tonnellate. Già il Governo Draghi ne ha imposto un incremento fino a 5,5 entro l’anno - per questo è stato riattivato da qualche settimana anche l’altoforno AFO4: per sopperire alla mancanza di acciaio a causa della guerra in Ucraina. Ma per Luciano Manna di VeraLeaks, questa giustificazione è solo “un effetto mediatico”. “Prima era il Covid, prima ancora il ponte sullo Stretto di Messina,” dice Manna che su Radio Vera e sulla sua pagina Fb non manca di denunciare costantemente che la Fabbrica avvelena ancora, e per altre questioni legate ai reati a mare ha ricevuto anche minacce di morte.

Spiega Massimo Ruggieri di Giustizia per Taranto che lo Stato si è indebitato molto per salvare l’Ilva e deve ripagare i debiti contratti con le banche (1,5 miliardi). Acciaierie d’Italia, dall’arrivo dell’indiana ArcerolMittal nel 2017, non è mai stata in attivo, per non contare le centinaia di migliaia di euro che vengono spesi dal 2008 per i lavoratori in cig e altre centinaia di migliaia per i costi sanitari.

La soluzione per i vari movimenti ambientalisti e per la salute pubblica è, appunto, la chiusura delle acciaierie. La Fabbrica è stata come Alien per Taranto, come l’ha definita Girolamo de Michele. Per questo, nel 2016 su iniziativa di Giustizia per Taranto e altre associazioni e comitati locali è stato lanciato il Piano Taranto che parte da uno studio sui SIN redatto da Confindustria (position paper del 2009, aggiornato nel 2016) e poi abbandonato.

Il Piano, sottoscritto da Taranto Respira, Legamjonici, Cittadini e Lavoratori Liberi e Pensanti, Gruppo Tamburi Combattenti e altri, vuole ribaltare il paradigma ‘senza Ilva sarebbe il nulla’ con ‘il nulla c’è proprio a causa della presenza dell’Ilva’. Il documento prevede “la riconversione economica, sociale ed ecologica dell’area di Taranto, la chiusura del polo siderurgico e il risanamento dei territori a opera dei suoi stessi lavoratori, e di quelli dell’indotto, reimpiegatə nelle bonifiche.” Il Piano promette un raddoppio della produttività e un ritorno per lo Stato in termini di fiscalità rispetto all’investimento. “Le bonifiche sono un investimento redditizio” sottolinea Spera di Legamjonici. Eppure, continua, non ci sono soldi nel PNRR destinati alla bonifica dei territori.

L’applicazione del Piano Taranto a livello nazionale può diventare “uno strumento per la crescita economica di tutto il Paese” afferma Ruggieri. Si tratta di un autentico “Green New Deal” che potrebbe ripartire proprio da Taranto. Per risanare tutti i SIN italiani occorrerebbero 9 miliardi; per Taranto ne occorrerebbero 4, “con potenziali ricadute stimate in 2 miliardi in fiscalità, 8 in produttività e 45.000 potenziali nuovi posti di lavoro”.

Il modello, prosegue Ruggieri, è quello del bacino della Ruhr in Germania, dove c’è stato un processo di riconversione economica, urbanistica e ambientale tra il 1989 e il 1999, e che è oggi un’attrazione artistica, turistica e culturale con 8 milioni di visite all’anno e che impiega 30.000 persone - l’associazione ha anche prodotto un documentario, Exit – La via d’uscita, ed esiste anche una tesi di laurea in architettura sul modello tedesco. Willy Brandt una volta dichiarò: “Il cielo sarà blu sopra la Ruhr,” e così è stato - l’Enscher Park, il museo della Ruhr nato dalle miniere Zollverein, oggi patrimonio dell’Umanità, il Landschaftpark di Duisburg Nord, il Gasometro di Oberhausen, attestano che riconvertire una vasta area fortemente inquinata è possibile. “Con i fondi del PNRR, il Piano Taranto sarebbe ancor più facilmente attuabile. Quel che manca è la volontà politica,” ribadisce amaro Ruggieri.

Oltre al ben documentato Danno Sanitario, l’inquinamento danneggia anche i monumenti, come rilevato dall’instancabile Alessandro Marescotti di Peacelink. Significativo che nel novembre del 2018 sia crollato un tratto dell’acquedotto romano del Triglio a ridosso dell’ex Ilva: le polveri e i vapori della vicina cokeria, mischiati alle forti piogge, hanno prodotto gli ossidi di azoto che hanno portato al crollo dell’opera di ingegneria idraulica. Il quartiere Tamburi, infatti, prende proprio il nome dal rumore dell’acqua che arrivava un tempo dall’acquedotto.

Tra coloro che misero la targa della maledizione a Tamburi, c’era anche il sindacalista Peppino Corisi, trent’anni di lavoro alle Acciaierie, morto a 64 anni.

Ennesimo morto di neoplasia polmonare, recita l’altra targa che per sua volontà i familiari han fatto affiggere su un muro del quartiere.

Quando sarà blu il cielo sopra il Mar Piccolo?

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