Ambiente

Bitcoin idrovoro

Lo sapevate che una transazione in bitcoin richiede una quantità d’acqua molto più alta rispetto a quella necessaria per un’operazione classica con una carta di credito?
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16 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

“Ogni pagamento in bitcoin “impiega una piscina d’acqua”. Così Chris Vallance titola il suo articolo pubblicato il 29 novembre 2023 da BBC News.

Confesso: seppur non conservi i miei risparmi sotto al materasso, sono estremamente diffidente nei confronti delle criptovalute, e leggo volentieri qualunque notizia confermi il mio pregiudizio (o bias che dir si voglia).

Soprattutto se - come in questo caso - avvalorata da uno studio della prestigiosa University of Cambridge.

L’articolo di Vallance riporta che, secondo Alex de Vries della Vrije Universiteit Amsterdam, ogni transazione in bitcoin richiede una quantità d’acqua pari a circa sei milioni di volte (!) quella necessaria a una classica “strisciata” con carta di credito. Il suo studio, pubblicato sulla rivista Cell Reports Sustainability, stima che nel 2021 i bitcoins abbiano consumato circa 1,6 miliardi di litri d’acqua, che potrebbero salire a oltre 2,2 quest’anno.

Ma per quale motivo il bitcoin pare essere così “assetato”? Vallance spiega che le transazioni bitcoin necessitano di un’enorme potenza di calcolo, che comporta un elevato consumo di elettricità: le centrali a gas e a carbone, che forniscono buona parte della nostra energia elettrica, devono essere raffreddate ad acqua; anche nel caso delle centrali idroelettriche, un’elevata quantità d’acqua è comunque dispersa per evaporazione, e altra acqua è necessaria per il raffreddamento dei milioni di computer necessari alle transazioni.

Ma torniamo allo studio della University of Cambridge, che consente di “rendere il consumo di elettricità dei bitcoins più tangibile e comprensibile per un pubblico eterogeneo, mettendolo a confronto con altri impieghi dell’elettricità”. Come gli studiosi stessi precisano, il rischio è quello di confrontare “mele con arance”, dal momento che il bitcoin riveste importanza e significato differenti per ognuno, quindi ogni termine di paragone scelto può risultare più o meno idoneo.

I numeri riportati sono comunque interessanti, quanto meno per inquadrare il fenomeno. Ogni anno nel mondo si producono 26730 TWh di energia elettrica, e se ne consumano 22315. Di questi, lo 0,7% è da attribuirsi alle transazioni bitcoin.

Ammetto di essere sinceramente sorpresa: non avrei mai immaginato che il mercato delle criptovalute - apparentemente così intangibile - richiedesse un tale dispendio di tangibilissima energia elettrica.

Ma ora arriva il colpo di scena: l’industria estrattiva dell’oro - notoriamente “energy intensive” - consuma meno elettricità delle transazioni in bitcoin, con 131 contro oltre 156 TWh all’anno.

Lo stesso vale per l’illuminazione di tutte le abitazioni degli Stati Uniti, che richiede “soltanto” 60 TWh all’anno.

I paragoni sono numerosi e svariati, ma i più significativi o comunque di più immediata comprensione sono probabilmente quelli legati agli interi consumi nazionali: in pratica, nell’arco del 2019 “far girare” il mercato dei bitcoins ha comportato un consumo elettrico superiore a quello dell’Ucraina, o a quello della Malesia, e confrontabile con quello dell’intera Polonia, in cui abitanti e industrie energivore non mancano.

In breve: i bitcoins sono tutt’altro che sostenibili! Ma Vallance e de Vries spiegano che modificare il funzionamento del mercato bitcoin consentirebbe di ridurne i consumi: non è il bitcoin in sé a essere energivoro/idrovoro, quanto la “proof of work” (specifico meccanismo di consenso) su cui si basano i suoi scambi.

Nel settembre dello scorso anno Ethereum - la cui criptovaluta ether è seconda per capitalizzazione di mercato soltanto a bitcoin - è passata dalla “proof of work” alla “proof of stake” quale meccanismo di consenso, riducendo in tal modo di oltre il 99% il proprio fabbisogno di energia elettrica.

In realtà, c’è chi, come il Professor Davenport della University of Bath, sostiene che questo sia il risultato di una gestione maggiormente centralizzata rispetto a quella di bitcoin; ciò non toglie che, a oggi, bitcoin sia molto, troppo idrovoro.

Lo studio della University of Cambridge chiosa con un “fun fact”: l’elettricità necessaria ad assicurare lo scambio di bitcoin in un anno sarebbe sufficiente a far bollire le teiere dei sudditi del Regno Unito per 35 anni. Non ci è dato sapere per quanti anni potrebbe assicurare caffè e cappuccino a noi italiani.

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