Ambiente

Vedo il mio mondo scomparire. E non voglio cedere al lutto

Ancora scarsamente accettata a livello sociale, la sensazione di perdita che si prova di fronte alla scomparsa della natura ha un nome e affligge molti di coloro che studiano e lavorano per proteggere l’ambiente
Credit: Life Folk 
Tempo di lettura 8 min lettura
2 dicembre 2023 Aggiornato alle 06:30

L’Amazzonia rischia di diventare un deserto silenzioso. I pinguini imperatore, in Antartide, sono prossimi alla minaccia di estinzione. In natura rimangono solo all’incirca 20.000 leoni africani.

E io sto male. E quando dico male, intendo che soffro, costantemente, di quel dolore che ti colpisce quando sai che qualcuno a cui vuoi bene se ne sta andando e non lo rivedrai più.

Può sembrare un paragone esagerato ma psicologi ed esperti sono da molto tempo concordi nell’affermare che la scomparsa della natura può provocare nelle persone sentimenti molto simili a quelli che si provano quando muore qualcuno che amiamo, tanto che ne è stata coniata persino una definizione. Eco-lutto, ossia quel sentimento che scaturisce in seguito all’esperienza diretta o alla consapevolezza delle prossime perdite ecologiche, incluse quelle che riguardano specie ed ecosistemi, e dovute a cambiamenti ambientali acuti o cronici.

Una definizione che include l’eco-ansia e la sostalgia, definite rispettivamente come “la paura cronica della rovina ambientale”, e “quel senso di desolazione che si prova di fronte alla scomparsa di luoghi per noi importanti” e riscontrata, in particolare, in quei popoli che si trovano costretti a migrare a causa della crisi climatica.

Quando ho scritto il progetto WANE- We Are Nature Expedition, e sono partita per documentare l’impatto delle attività umane sulla biodiversità lungo la Panamericana, ormai ben un anno e sei mesi fa, sapevo che non sarebbe stato facile, che avrei dovuto scontrarmi con molte delle paure che chiunque si occupi di natura si porta appresso e che osservare con i miei occhi quello che tutti noi, nessuno escluso, sta facendo alla natura, mi avrebbe cambiata profondamente. Quello di cui, però, non ero ancora consapevole, è che vivere costantemente immersa in un mondo caratterizzato dalla “perdita” avrebbe fatto sì che un enorme senso di vuoto e di impotenza si impossessasse della mia mente e della mia capacità di reagire.

Pensi di essere forte, di essere preparata, anche in virtù degli anni di studio e di lavoro, della professionalità che sei certa ti fornirà una corazza indistruttibile. E invece, davanti agli occhioni dorati di uno degli ultimi esemplari di rana d’acqua di Sehuencas, chiuso in un acquario del Centro Kayra di Cochabamba, in Bolivia, per un progetto di conservazione ex-situ, la tua sicurezza si sgretola come la terra arida dell’Amazzonia Boliviana, colpita da uno dei periodi di siccità più lunghi e violenti della storia. Guardo il piccolo anfibio che, quasi per dispetto, mi volge le spalle, e sono nella fase di elaborazione del lutto caratterizzata dal rifiuto e della negazione.

Seduto nel suo ordinato studio dell’Alaska Sea Grant Marine Advisory Program, della University of Alaska (Fairbanks), il Prof. David Holen mi raccontava solo pochi mesi fa del disastro della Exxon Valdez, la petroliera che nel 1989 si è incagliata sversando in mare ben 50 milioni di litri di greggio e inquinando più di 2000 km di costa.

Quell’evento ha profondamente cambiato la vita delle comunità che vivono nella Penisola di Kenai, in Alaska, e lui ricorda ancora il loro sguardo, mentre lottavano tutti insieme per ripulire le spiagge, per evitare che tutto venisse risucchiato da un’enorme e appiccicosa marea nera.

Qualche giorno dopo la nostra chiacchierata, mi sono imbarcata in un peschereccio per vedere con i miei occhi cosa rimaneva di quel disastro e mentre la nebbia si diradava e il mio corpo iniziava a reagire al freddo pungente - complici due strati di pile e un termos di caffè caldo stretto tra le mani - ecco comparire tra le onde le pinne dorsali di 4 orche. Chenega, Mike, Egagutak e Iktua, gli ultimi esemplari del branco AT1. La matriarca è nata nel 1965. Mike nel 1980. Ha l’età di mio marito e di molti di voi, o dei vostri figli, compagni o nipoti.

Non ha mai potuto riprodursi. Il disastro petrolifero ha reso sterile lei e le altre femmine del branco. L’unico maschio, invece, ha la pinna dorsale così ridotta da non essere neanche lontanamente simile a quella di un esemplare di orca adulto. Quando moriranno, con loro scomparirà anche il dialetto unico con cui comunicano. Perché, proprio come accade tra noi esseri umani, anche le orche e molti altri animali, si scambiano messaggi con dialetti diversi a seconda della regione in cui vivono. Una perdita enorme per l’umanità intera e che riguarda anche ben 7400 lingue indigene che scompariranno insieme agli ecosistemi in cui vivono le comunità che le parlano, entro la fine del secolo.

La rabbia sale. Com’è possibile che a così tante persone ancora non interessi? Come posso spiegare, a me stessa e agli altri, quale tragedia enorme sarebbe guardare il mare e sapere che, tra le onde, non sarà più possibile veder saltare orche, delfini, megattere. E che, nel blu profondo, non esisteranno più squali a spaventare alcuni e affascinare altri? Perché, quanto pensate possano ancora resistere questi grandi predatori, se ogni anno ne uccidiamo circa 100 milioni di esemplari? E perché, nonostante siamo in tanti, ormai, a studiare e raccontare quanto sta succedendo, io ricevo ancora messaggi che mi parlano di invidia per i luoghi che sto vedendo e mi pongono più domande su come mi faccio la doccia in van - mezzo che sto utilizzando per attraversare le Americhe premurandomi di abbattere, grazie a ZeroCo2, le emissioni emesse piantando una foresta in Guatemala - e non sui fattori che portano alla scomparsa della biodiversità e sulle soluzioni che si stanno adottando per evitarlo?

Nei giorni passati alla Charles Darwin Foundation, alle Galapagos, ho conosciuto Paula Lahuatte, una ricercatrice che passa intere giornate a studiare Philornis downsi, ribattezzata la mosca vampiro perché le sue larve, ematofaghe, si nutrono del sangue dei pulcini di svariati uccelli e il suo impatto è ormai così importante che nei fringuelli delle mangrovie, una delle specie studiate da Darwin per elaborare la teoria dell’evoluzione, la mortalità è ormai pari al 100%. Ma Lahuatte non si limita a studiarne il comportamento. Ne nutre amorevolmente le larve con sangue di pollo, cercando di capire come reagiscono e con la speranza, a breve, di creare una grande colonia di mosche domestiche che possano essere sterilizzate e dare così inizio a un controllo della specie che ne limiti i danni in un ecosistema fragile e prezioso come quello del remoto arcipelago ecuadoregno.

Eliminare questa specie aliena introdotta accidentalmente dall’uomo negli anni ‘60 è infatti ormai impossibile. «Ma possiamo imparare a conviverci», afferma dal suo laboratorio ronzante. Ecco che, in me, subentra la terza fase di elaborazione del lutto. Quella dell’accettazione, del patteggiamento. Inizio a integrare nella mia vita la consapevolezza delle perdite a cui ho assistito e di cui sarò testimone nel prossimo futuro senza dimenticare, però, il dolore.

Una ricerca pubblicata nel 2022 su Science Advance, spiega come il 10% degli animali terrestri potrebbe scomparire da determinate aree geografiche entro il 2050 e quasi il 30% entro il 2100. Si tratta di una cifra più che doppia rispetto alle precedenti previsioni. Mentre osservo una decina di Ara gialli e blu volare sopra una delle tante lagune amazzoniche, rifletto sul fatto che i bambini nati oggi, arrivati a 70 anni non saranno in grado di raccontare ai propri nipoti alcuna favola sugli elefanti o sui koala. E nemmeno sui chiassosi Ara, o sui trichechi. O forse lo faranno, ma solo con l’aiuto di un libro che racconterà di quando la Terra era un luogo pieno di meraviglia. È la fase della depressione.

Ma se riuscissimo a ridurre drasticamente le emissioni di carbonio a livello globale, potremmo salvare migliaia di specie dall’estinzione locale solo in questo secolo. Ne ho discusso con Valeria Aspinall, coordinatrice di TLALOC, il programma di conservazione degli anfibi della Costa Rica Wildlife Foundation, capace di commuoversi al pensiero che i suoi figli potrebbero non vedere mai la piccola rana arboricola scoperta nella Tapir Valley, di cui ha contribuito all’identificazione. Nei suoi locchi lucidi, la speranza.

Se l’empatia continuerà a guidare persone come lei, se investiremo nella conservazione e saremo capaci di mitigare o eliminare i 5 fattori di perdita di biodiversità - cambiamenti climatici, perdita di habitat, diffusione di specie aliene invasive, inquinamento e sovrasfruttamento - se in mezzo ai messaggi di “invidia” continuerò a ricevere anche video in cui piccole, giovanissime, promesse della conservazione mi raccontano le loro avventure alla scoperta della natura, inviandomi disegni delle creature del mare e invitandomi a documentare specie che, talvolta, nemmeno i più edotti ornitologi conoscono, ecco che forse ce la possiamo fare. Non è la fase dell’accettazione, come richiederebbe il normale decorso del lutto. È la fase in cui il dolore diventa azione. In cui prendo il mio quaderno di appunti e la macchina fotografica e mi dico che la cosa più stupida che possiamo fare, oggi, è lasciare che accada senza lottare. Perché, contrariamente a quanto succede con la morte di una persona cara, quello che stiamo facendo alla natura è una nostra responsabilità e, in quanto tale, siamo gli unici ancora in grado di agire per evitare il collasso.

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