Senza investimenti la violenza contro le donne non si può combattere
“Per liberare le donne dalla violenza puntare al ribasso non conviene”. È questo il messaggio della campagna lanciata da ActionAid in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne. Un messaggio che intende richiamare l’attenzione delle istituzioni sulla necessità urgente di finanziare in maniera strutturale politiche di prevenzione, visto che da sempre sono largamente sottofinanziate.
Prevenzione sottocosto. La miopia della politica italiana nella lotta alla violenza maschile contro le donne è il titolo del rapporto che ha rivelato che tra il 2020 e il 2023 solo il 12,4% delle risorse è stato destinato alla prevenzione, di cui il 55% a quella terziaria, che agisce quando la violenza è già avvenuta. Una strategia i cui effetti sono davanti ai nostri occhi: i fondi crescono, ma il numero delle violenze e dei femminicidi non scende. A scendere sono invece, almeno fino a oggi, i finanziamenti annuali per queste attività, fermi – al 15 ottobre 2023 – a 5 milioni contro i 17 del 2022, anche perché le risorse per l’anno in corso – a metà novembre – non sono ancora state impegnati.
La Svolta ne ha parlato con Isabella Orfano e Rossella Silvestre, curatrici del rapporto.
Solo il 12% dei fondi antiviolenza viene destinato alla prevenzione. Quali sono, quindi, gli interventi e le attività che ricevono più risorse?
Rossella Silvestre - Prima di tutto è necessario precisare che le percentuali fanno riferimento alle risorse stanziate nel periodo 2020-2023, pari a circa 248 milioni di euro. La quota maggiore di tali risorse, l’81%, è stata riservata a interventi di protezione a supporto delle donne. Si tratta dei fondi destinati al funzionamento ordinario di centri antiviolenza e case rifugio garantito da una legge che obbliga lo Stato ogni anno a stanziare determinate risorse per il funzionamento dei Cav e delle Cr.
Un’altra quota importante di fondi è andata a quelli che la Convenzione di Istanbul definisce i “servizi generali”, quindi il supporto all’indipendenza economica delle donne, ovvero a tutti quei servizi che intervengono nel momento in cui la donna intraprende il percorso di fuoriuscita della violenza. Nel caso italiano, queste risorse riguardano in particolare il finanziamento del reddito di libertà o il congedo per motivi di violenza, quella misura che fa sì che le donne possano mantenere l’occupazione e quindi restare nel mondo del lavoro. Anche qui siamo di fronte a misure che prevedono un finanziamento per legge, quindi, uno stanziamento annuale obbligatorio.
Queste risorse sono legate anche al periodo post pandemico: il reddito di libertà e gli incentivi all’assunzione sono tutte misure adottate nel 2020-2021 per far fronte a quella situazione economica già difficile conseguente alla pandemia, che ha portato il Parlamento a intervenire a supporto delle donne che hanno subito violenza.
Il problema è che continuare a investire quasi esclusivamente in protezione non è sufficiente perché si va solo in risposta alla violenza già agita e non si interviene sulle cause che la generano. In sostanza, non si previene la violenza.
La prevenzione della violenza di genere può essere di 3 tipi: primaria (attività di sensibilizzazione e informazione volte al cambiamento culturale e rivolte a tutta la popolazione), secondaria (interventi indirizzati a chi è considerato a rischio di subire violenze e per individuare la violenza fin dai prodromi e poter intervenire precocemente) e terziaria (interventi successivi alla violenza per evitare recidive o aggravamenti). In che proporzione vengono distribuite le risorse tra le varie tipologie di intervento?
Isabella Orfano - Come mostriamo nel report, nel periodo 2020-2023, il 55,26% delle risorse è stato stanziato per quella che viene chiamata “prevenzione terziaria”. Questa percentuale è così alta perché si è deciso, nel lasso di tempo preso in considerazione, di finanziare soprattutto i centri per gli autori di violenza. Non essendoci una norma che vincola i fondi stanziati nel piano antiviolenza ad azioni specifiche di prevenzione, non sappiamo se in futuro questo tipo di quota verrà mantenuta, perché è una decisione politica.
Poi abbiamo una quota del 44,62% per la prevenzione primaria e una molto minimale per la “prevenzione secondaria”, lo 0,12%, che è andata specificatamente ad azioni di formazione per chi a vario titolo può entrare in contatto con chi subisce o agisce violenza contro le donne. Una parte di questi fondi è stata destinata anche alla formazione di professionalità che operano all’interno del carcere, per il trattamento intensificato cognitivo-comportamentale degli uomini.
Perché questa cifra è così bassa? Un aspetto fondamentale che teniamo molto a sottolineare è che noi rileviamo i dati pubblici perché lavoriamo sulla trasparenza e l’accountability delle istituzioni. Tutta la nostra ricerca si basa su dati che sono reperibili pubblicamente, informazioni rese pubbliche dalle amministrazioni o raccolte attraverso il ricorso all’accesso civico generalizzato. Abbiamo fatto questa richiesta a più Ministeri e hanno risposto solo alcuni. Non solo: quest’anno non è ancora stato emanato il DPCM per la ripartizione dei fondi relativi al piano antiviolenza, dentro il quale ci saranno attività di sensibilizzazione e formazione, per le quali saranno allocate risorse specifiche. La nostra ricerca si ferma al 15 di ottobre e quindi queste percentuali sono calcolate sulla base dei dati disponibili fino a quella data.
Questi fondi, però, sono così bassi anche perché sovente le formazioni realizzate all’interno dei vari ministeri sono inserite in altre programmazioni difficilmente tracciabili perché non rese pubbliche e, comunque, nella grande maggioranza dei casi non comportano oneri per la finanza pubblica. Spesso poi i moduli formativi non sono regolarmente parte dei curricula, quindi, un anno ci sono e quello successivo no. Data la situazione, risulta alquanto difficile valutare la qualità della formazione erogata.
Quanto è importante l’esistenza di previsioni normative dedicate all’allocazione dei fondi in specifiche aree di intervento? Una legge che stabilisca le risorse economiche da destinare alle politiche antiviolenza nella loro totalità potrebbe aiutare a fare la differenza?
Rossella Silvestre - Su questo faccio un passo indietro: noi abbiamo comunque una legge, la 119 del 2013, che prevede l’adozione di un piano antiviolenza triennale e uno stanziamento di 15 milioni che il dipartimento per le Pari Opportunità deve programmare annualmente per dare attuazione alle azioni e agli interventi del Piano. Non essendoci però una norma che definisce, a esempio, che un 10% vada alle attività di prevenzione, un 20% alle attività di protezione eccetera, tutto è lasciato alla scelta politica. Dovrebbe esserci un documento operativo che, a oggi, non è stato diffuso. Al momento abbiamo rilevato che, dal 2013 a oggi, solamente laddove c’è una norma che prevede uno stanziamento strutturale c’è un effettivo finanziamento. .
Isabella Orfano - Il piano antiviolenza 2021-2023 è un piano strategico che, a due anni dalla sua pubblicazione, ancora non è stato complementato dal piano operativo, che chiarisce chi fa cosa, come e quando e con quanti soldi. Tutti i governi che si sono succeduti nel tempo hanno dichiarato che tale documento era pronto, ma – a oggi –non è mai stato reso pubblico. È anche una questione di trasparenza.
E quando le normative ci sono come vanno le cose? Dicevamo che una parte significativa dei fondi va ai centri antiviolenza e alle case rifugio: in base alla vostra analisi sono adeguati?
Rossella Silvestre - Anche qui ci sono due livelli, quello politico e quello normativo. La norma a oggi ci dice che lo Stato deve stanziare 16 milioni – fino a due anni fa erano 10 milioni – per i centri antiviolenza e case rifugio. Dal 2018 in poi il la somma è sempre stata aumentata, fino all’ultimo decreto, in cui la cifra era di 30 milioni di euro. È ovvio che non sono sufficienti. Come non sono sufficienti neanche le risorse del reddito di libertà, che da quest’anno, se la legge di bilancio passa così come è stata depositata in Parlamento, avranno un finanziamento annuale fisso di 6 milioni. Questo significa che circa 1.250 donne potranno avere accesso al reddito di libertà, a fronte delle circa 56.000 accolte dai centri antiviolenza e case rifugio ogni anno. Tra queste, secondo un calcolo fatto dall’Istat, 21.000 avrebbero bisogno di una misura di supporto al reddito in quanto in condizione di temporanea vulnerabilità economica.
È ovvio che è insufficiente, però è già un passo avanti riuscire a incardinare nell’ordinamento italiano delle norme che obbligano la politica, al di là del colore del partito, a finanziare tale strumento di supporto al reddito. Altrimenti diventa una lotta annuale.
Isabella Orfano - L’Istat ha fatto anche un calcolo di quanto costa una casa rifugio. Esiste un grandissimo scarto tra quanto effettivamente costano le strutture di accoglienza e quanto viene erogato dallo Stato per il loro funzionamento. Da tanti anni chiediamo che venga fatta una seria analisi dei costi e soprattutto che vengano rilevati quali sono i bisogni reali, ma non siamo mai veramente state ascoltate. I Cav e le case rifugio sanno esattamente di cosa hanno bisogno in termini economici per far funzionare al meglio le loro strutture e vanno ascoltati. Se tu non sai qual è il fabbisogno, qualunque cifra darai sarà una cifra non dico simbolica, però che sicuramente non andrà a rispondere appieno alle necessità effettive.
Cosa non ha funzionato nella strategia di investimenti dei fondi antiviolenza dell’ultimo decennio?
Isabella Orfano - Secondo me la prima tabella del rapporto è molto esplicativa: si vede la linea dei fondi in costante crescita nel corso degli anni, mentre quella dei femminicidi rimane sostanzialmente inalterata. Perché se si aumentano i fondi sulla protezione – elemento di per sé sempre positivo – si rafforza il supporto ai centri antiviolenza, ma se non si lavora sulla prevenzione, la violenza continuerà a esistere. È chiaro che manca in primo luogo la consapevolezza che si deve lavorare con urgenza sul piano culturale.
Non si devono però prevedere solo i corsi nelle scuole di ogni ordine e grado, ma fare un lavoro molto più ampio per incidere anche sulle persone di tutte le età per sradicare le cause alla base di quella cultura che produce e riproduce le varie forme di violenza maschile contro le donne. Questa è la vera, grandissima, sfida che chi guida le istituzioni dovrebbe finalmente intraprendere. Se non si lavora su questo, il prossimo anno e anche quello dopo ci ritroveremo a scrivere nuovamente un report in cui probabilmente la prima linea del nostro grafico, quella dei finanziamenti, continuerà ad andare sempre più in alto e noi saremo molto contente di registrare l’aumento dei fondi, ma – allo stesso tempo – dovremmo sottolineare ancora una volta che le donne continuano a subire nella stessa misura varie forme di violenza.
In questi anni di monitoraggio delle politiche e dei fondi antiviolenza, abbiamo rilevato, oltre all’aumento dei fondi, anche una maggiore trasparenza da parte delle istituzioni. Inizialmente abbiamo riscontrato diverse difficoltà nel recuperare molti dati semplicemente perché non venivano resi disponibili. Ora possiamo dire che, forse anche dietro la nostra continua sollecitazione, sia il Dipartimento per le pari opportunità sia le Regioni hanno fatto molti passi in avanti e gran parte della documentazione è accessibile a chiunque.
Sicuramente poi si parla di questa tematica molto di più rispetto a una volta, anche questo è da riconoscere. Se ne parla di più, ma bisognerebbe fare in modo che il tema della violenza maschile contro le donne fosse ancora più trasversalmente riconosciuto nei vari ambiti sociali e professionali.
Rimane, però, un altro problema, che è quello dei tempi di stanziamento dei fondi. Secondo le nostre analisi anche quelli si sono leggermente ridotti, soprattutto a livello regionale, ma il problema rimane a livello centrale. Se tu responsabilmente non ti metti nell’ottica che è necessario erogarli in tempi rapidi, il tuo ritardo avrà tutta una serie di ripercussioni su chi gestisce quotidianamente i centri antiviolenza. E, ripeto, siamo oggi al 15 novembre e il DPCM di ripartizione dei fondi antiviolenza non è ancora uscito, sicuramente verrà pubblicato nei prossimi giorni con l’avvicinarsi del 25 novembre. Si tratta di risorse allocate annualmente in legge di bilancio, generalmente a dicembre. Da anni raccomandiamo di stanziare questi fondi almeno entro i primi tre mesi dell’anno, ma non succede praticamente mai. Conosciamo bene le procedure burocratiche che portano all’approvazione e allo stanziamento e sappiamo che richiedono tempo, però, abbiamo visto che in piena epoca pandemica – unico caso registrato – i finanziamenti sono stati stanziati in tempi rapidi. Poi se guardiamo al di fuori dei nostri confini, ci accorgiamo che ci sono Paesi virtuosi. In Spagna, a esempio, per l’anno in corso, i fondi per tutte le forme di violenza sono stati stanziati lo scorso febbraio. Insomma, siamo convinte che si possa fare anche in Italia.
ActionAid ha lanciato la campagna Black Freeday contro il sottofinanziamento delle politiche di prevenzione alla violenza di genere. Quali sono gli obiettivi?
Isabella Orfano - Che il governo capisca che è necessario allocare molti più fondi e in maniera strutturale per la prevenzione, e che la responsabilità di lavorare su questo fronte deve essere in capo anche al Parlamento. Come mostriamo nel report, nel corso di questa nuova legislatura sono stati presentati 48 disegni di legge, emendamenti, mozioni, risoluzioni e ordini del giorno, ma la stragrande maggioranza non prevede alcuna copertura finanziaria. Le politiche antiviolenza, come qualunque politica, e soprattutto quelle di prevenzione non possono essere portate avanti a costo zero. Prevenire la violenza degli uomini contro le donne in questo Paese è una responsabilità politica di chiunque sia seduto o seduta in Parlamento, questo deve essere molto chiaro.
Ed è una responsabilità di tutte le forze politiche farla diventare una priorità nella loro agenda, non solo il 25 novembre, ma 365 giorni all’anno. Ed è di fondamentale importanza che Governo e Parlamento si impegnino quanto prima ad adottare delle norme sulla prevenzione, soprattutto primaria, che possano contribuire effettivamente a far cambiare la cultura patriarcale di questo Paese. Norme che devono prevedere finanziamenti adeguati, altrimenti serviranno davvero a poco.
Secondo noi anche la narrazione che si fa sulla prevenzione è importante. Perché è vero che questo Governo ha incrementato i finanziamenti per le politiche antiviolenza, in linea con il trend dei governi precedenti, ed è altrettanto vero che si sta impegnando sulla prevenzione, ma si tratta di prevenzione terziaria, ovvero quella che si attiva per prevenire le recidive, in risposta a casi di violenza già avvenuti. È sicuramente importante, ma noi chiediamo che si impegni in maniera sostanziale sulla prevenzione primaria. Questa è la nostra richiesta più importante: prevenzione primaria ben finanziata e legata a una norma.
Ovviamente, come detto, i nostri dati si riferiscono a metà ottobre e, quindi, saremmo molto felici di essere smentite nel caso in cui, il DPCM di ripartizione dei fondi che uscirà a breve, destinasse una percentuale significativa delle risorse alla prevenzione primaria. Sarebbe davvero l’inizio di un cambiamento positivo per l’Italia. Ci auguriamo che ciò accada davvero.