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Guida pratica ai CAV

Cosa sono, dove trovarli, come contattarli, quali servizi offrono, cosa succede al primo colloquio e dopo: ecco tutto quello che c’è da sapere sui Centri AntiViolenza in Italia
Credit: Anna Shvets/pexels

Cos’è un centro antiviolenza e come ci si arriva?

In Italia ci sono più di 300 centri antiviolenza (o CAV), più o meno equamente distribuiti sul territorio nazionale (qui è possibile vedere la mappa aggiornata) e si occupano, tramite vari servizi di supporto, di accompagnare le donne in un percorso di fuoriuscita dalla violenza. Oltre al passaparola, elemento preziosissimo in questi casi, si viene in contatto con un CAV tramite il 1522, numero unico nazionale attivato dalla presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Dipartimento per le Pari Opportunità a cui rivolgersi in caso di violenze, abusi o stalking. È attivo 24 ore su 24, tutti i giorni e accoglie le richieste di aiuto per un sostegno telefonico urgente o per indirizzare le donne nel centro territorialmente competente.

La maggioranza dei CAV esiste grazie a bandi regionali e comunali ed è quindi inquadrabile come ente istituzionale, mentre altri, che sono la minoranza, nascono da realtà politiche che lottano per l’eliminazione della violenza maschile sulle donne e cercano di sopperire al grandissimo carico di lavoro; è cosa nota che, considerata la portata enorme dei di violenza di genere, i centri e le case rifugio siano sempre troppo pochi. Il fine comune è quello di costruire spazi di libertà e dialogo, collaborando con le istituzioni del territorio e offrendo un servizio che riconosce l’urgenza delle lotte femministe.

Il primo contatto con il CAV

Quando una donna decide di affrontare un primo colloquio di sostegno sarà accolta, nel completo rispetto della privacy, da figure professionali con una formazione specifica in questo ambito; il primo incontro ha l’obiettivo di individuare il tipo di violenza subita o in atto (fisica, psicologica, economica), ma soprattutto i fattori di rischio (valutati in una scala da 1 a 5). Qui si aprono diverse alternative: se non viene rilevato un alto rischio per l’incolumità della donna (e spesso dei figli), il percorso sarà indirizzato verso la rielaborazione del vissuto, al supporto psicologico e al dialogo su che cosa sia e come si presenti una relazione abusante.

Nel caso in cui, invece, si rilevi un alto grado di rischio per la sicurezza fisica e psichica della donna, le operatrici hanno il compito di informarla sulle possibili soluzioni: rivolgersi alle forze dell’ordine per avviare una procedura di emergenza a seconda della situazione di violenza o valutare il temporaneo spostamento in una casa rifugio o in una casa di semi-autonomia (strutture di accoglienza per donne con e senza figli). I dati ci dicono che purtroppo l’altissimo numero di domande a fronte dei pochissimi posti disponibili, spesso non permettono alle donne una vera messa in sicurezza, costringendole in molti casi a chiedere ospitalità, quando possibile, ai genitori o ad amici.

Dopo il primo colloquio, alle utenti viene proposto il percorso più idoneo alle esigenze del caso specifico e hanno la possibilità di contattare le operatrici h24 al numero di reperibilità di emergenza.

Quali servizi offre un CAV?

Ogni percorso di fuoriuscita dalla violenza è a sé e si costruisce sulle esigenze personali della donna, che possono riguardare il lavoro, le relazioni familiari, la salute mentale, l’assistenza legale e la genitorialità. Il CAV, grazie al lavoro di figure professionali esterne, mette a disposizione delle donne numerose reti di supporto completamente gratuite.

Vengono fissati alcuni giorni della settimana per l’assistenza legale (sia civile che penale), che si occupa di prendere in carico la donna nel caso in cui abbia deciso di denunciare il maltrattante, di separarsi o divorziare, o di chiedere l’affidamento dei figli, garantendole il gratuito patrocinio per qualsiasi procedimenti davanti all’autorità giudiziaria. Gli incontri con le avvocate, inoltre, sono utili anche nei casi in cui le donne vogliano semplicemente avere un’idea dell’iter giudiziario: con l’aiuto delle operatrici si raccolgono prove, evidenze e testimonianze della violenza. Questo momento serve anche a preparare la donna allo stress psicologico del giudizio in Tribunale, che notoriamente non è sempre un luogo in cui la violenza di genere viene riconosciuta come tale.

Sempre settimanalmente, vengono garantiti degli incontri con un’orientatrice al lavoro, che aiuta le donne a riconoscere le proprie inclinazioni e capacità, cose che spesso si annullano in una relazione violenta e totalizzante. Inoltre, c’è la possibilità di iniziare un percorso psicologico, completamente gratuito, e aprire uno spazio di ascolto e dialogo sulla condizione psichica. Un contesto relazionale o familiare violento provoca nella donna una sorta di adattamento, di sopportazione delle angherie per l’unità familiare, per la necessità di proteggere i figli e di nascondere i maltrattamenti all’esterno, per paura o per vergogna.

L’importanza della prospettiva di genere

Un CAV ha una funzione sociale di estrema importanza, e urgenza visti i numeri della violenza di genere che sfociano in femminicidi, e per svolgere al meglio questa funzione serve un approccio di genere. Come è normale, alcuni bandi regionali o comunali non sempre sono in grado di verificare la professionalità dei centri (alcuni centri hanno un altissimo numero di primi colloqui e un altrettanto altissimo tasso di abbandoni): per questo l’approccio femminista è centrale, perché in grado di parlare di violenza maschile sulle donne e di sistema patriarcale.

I dati Istat sulla questione di genere ci dicono che non esiste un utente modello nei centri antiviolenza, perché la violenza è un fenomeno così vasto da essere trasversale e riguardare donne di tutte le provenienze, sociali e geografiche. Anche per questo l’approccio femminista è importante e in grado di creare una rete di collegamento e supporto tra tutte le donne, che ritrovano in quello spazio la possibilità di parlare liberamente e riconoscere le violenze, qualunque esse siano.

Le donne non vengono definite “vittime” e si parla di un percorso di fuoriuscita dalla violenza, cercando di decostruire gli stereotipi che conducono alla relazione violenta e all’annullamento della persona che la subisce; inoltre, nessuna operatrice antiviolenza competente forzerà la donna a denunciare senza una messa in sicurezza e una forte consapevolezza del percorso processuale nei reati di genere. L’obiettivo è quello di ridare alla donna la libertà di scegliere, di darle gli strumenti che una società patriarcale le ha negato e dare a lei la possibilità di riappropriarsi del proprio spazio, come essere umano prima di tutto.

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