Futuro

Non ha(nno) l’età?

A Barcellona un gruppo sempre più nutrito di genitori vorrebbe impedire l’uso di cellulari fino ai 16 anni, sostenendo che i giovanissimi non abbiano le capacità per usarli. Ma è davvero così?
Credit: Ketut Subiyanto
Tempo di lettura 6 min lettura
11 novembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Per natura, formazione e deformazione professionale, sono da sempre un’appassionata di tecnologia: ricordo ancora quando - nel lontano 1979 - diventai l’eroina dei miei compagni di terza elementare perché mio papà, di ritorno da una trasferta in Arabia Saudita, anziché una Barbie mi portò il primo orologio digitale da polso con calcolatrice incorporata. Il fatto che l’orologio fosse grande e pesante quanto la pendola del bisnonno Vladimiro è del tutto irrilevante.

Aprendo la pagina “Tecnología” di El País, la testata online più letta dagli spagnoli, m’imbatto in una notizia interessante pubblicata il 3 novembre dal titolo: Un bambino di 12 anni non è pronto: perché migliaia di genitori si alleano per ritardare l’arrivo del primo cellulare.

Una chat di WhatsApp a Barcellona si è riempita in poche settimane di madri e padri che vogliono limitare l’uso dei dispositivi tra gli studenti. e che hanno dato vita un movimento che sta crescendo rapidamente in tutta la Spagna.

Incuriosita, inizio a leggere l’articolo e scopro che gli organizzatori hanno condiviso con El País il risultato provvisorio di una domanda fatta in chat: “Gruppi di famiglie propongono che gli adolescenti non dispongano di smartphone fino a 16 anni, come raccomanda l’Unione Europea. Cosa ne pensi?”. Più del 70% ha risposto in modo favorevole. Solo un 10% ritiene che 16 anni siano “troppo tardi”.

Quindi un quindicenne in vacanza a Barcellona dovrebbe affidarsi alle cabine telefoniche (sempre che ne esistano ancora: se non erro, da questo gennaio Telefónica non ha più alcun obbligo di mantenerle in funzione) e alle piantine cartacee della città… come accadeva a me alla sua età nel 1986.

Cosa sta alimentando questo movimento catalano? Non mi resta che continuare a leggere. In almeno tre conversazioni del giornale coi genitori coinvolti, è emerso il nome di Francisco Villar, uno psicologo clinico esperto in suicidio […] che ha pubblicato un articolo sullo stesso quotidiano una settimana fa dal titolo È necessario vietare i cellulari fino ai 16 anni. Questo psicologo è stato intervistato decine di volte dai media e martedì scorso è uscito nelle librerie il libro Come gli schermi divorano i nostri figli.

La sua principale argomentazione a sostegno del divieto è che nel pronto soccorso del suo ospedale sono «passati dall’aver trattato 250 episodi di comportamento suicida (ideazione, minacce, gesti e tentativi) nel 2014 a 1000 nel 2022». Secondo lui la causa occulta” di questo aumento è che gli schermi privano i ragazzi degli strumenti per rendere il mondo un luogo più vivibile.

Immagino - o spero - che l’articolo presenti anche punti di vista differenti, quindi persevero nella lettura fino a trovare il parere di Gemma Martínez, ricercatrice del gruppo europeo EU Kids Online dell’Università dei Paesi Baschi. «Mi preoccupa da dove provenga questo panico. […] Il livello di competenze digitali dei minori spagnoli lascia molto a desiderare rispetto ai loro coetanei europei ma non puoi convincere il tuo vicino a non dare un cellulare al proprio figlio basandoti sulla retorica della paura, è molto pericoloso. È un passo indietro, che mi sconforta».

Dato che El País dà per scontata la nostra conoscenza di EU Kids Online, ma io - confesso - finora ne ignoravo l’esistenza, cerco la pagina web ufficiale di questo “gruppo europeo” per capire esattamente chi siano e di cosa si (pre)occupino: EU Kids Online è una rete di ricerca multinazionale che cerca di migliorare la conoscenza sulle opportunità online, i rischi e la sicurezza dei bambini europei. Utilizza diversi metodi per mappare le esperienze dei bambini e dei genitori su Internet, in dialogo con gli attori politici nazionali ed europei. Quindi Martínez è competente in materia. E decisamente in controtendenza rispetto a Villar.

Non sta a me - peraltro figlia, ma non madre - decidere chi abbia torto e chi abbia ragione fra i due. O peggio ancora chiosare con un aristotelico (pardon: medioevale scolastico) “In medio stat virtus”. Tuttavia, nuovamente per natura (talvolta petulante), formazione (ingegnere chimico) e deformazione professionale (23 anni di lavoro nel settore automobilistico lasciano il segno), mi permetto di muovere una critica a Villar.

Nell’esporre la sua tesi lo psicologo parte da un dato: nell’arco di 8 anni, il numero di episodi di comportamento suicida fra giovani trattati nel “suo” pronto soccorso è quadruplicato.

In generale, presentare un valore assoluto anziché percentuale è discutibile, a meno che il “sistema di riferimento” in quel lasso di tempo si sia mantenuto invariato: ipoteticamente, l’aumento del numero di casi potrebbe essere imputabile alla chiusura di ospedali vicini ergo alla concentrazione dei pazienti in quello in questione, oppure a una significativa variazione dei protocolli medici, oppure a una maggiore sensibilità - tanto dei medici, quanto dei genitori e insegnanti, quanto degli stessi giovani, etc. - rispetto a questo tema.

La mia natura petulante mi motiverebbe a continuare, ma preferisco partire dall’assunto che nessuna condizione al contorno sia variata: per alcuni, il mondo è bello perché è sempre identico a se stesso. Accontentiamoli e “assumiamo” che il numero dei tentati suicidi fra i giovani sia quadruplicato negli ultimi 8 anni. Se anche così fosse, Villar pare aver commesso un errore di fondo: limitarsi al primo “perché”, definendo quindi la dipendenza da schermo come la “causa occulta” dei comportamenti suicidi. Dimenticando - o ignorando - che negli anni Trenta del secolo scorso Sakichi Toyoda - fondatore del gruppo Toyota - comprese che per risolvere un problema se ne sarebbe dovuta ricercare la causa radice, e che per trovare la causa radice si sarebbe potuto ricorrere ai “5 perché”. Chiedersi perché, e trovare una prima causa “apparente”. Domandarsene il perché, e trovarne una seconda meno semplicistica… e così via fino al quinto perché. O meglio ancora finché non esista più una risposta, perché si è finalmente giunti alla causa radice, ovvero all’autentica origine del problema.

Banalizzando: anziché fermarsi alla superficie e all’apparenza, è necessario scavare a fondo. Senza fermarsi.

E se il metodo di Toyoda-san si è mostrato valido oltre 25 anni or sono per una giovane ingegnere alle prese con la maglia di una catena (per motocicletta) allentata, lo dev’essere a maggior ragione oggi per uno psicologo clinico esperto in suicidio.

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