Diritti

Victoria’s Secrets: go woke and go broke?

Per far quadrare i conti, l’azienda di intimo è pronta a dire addio alle campagne basate sulla diversità per tornare alla sexyness che l’ha resa celebre. Ma a non pagare è stata l’inclusività o il woke-washing?
Credit: Getty Images
Costanza Giannelli
Costanza Giannelli giornalista
Tempo di lettura 4 min lettura
5 novembre 2023 Aggiornato alle 06:30

Go woke and go broke? A vedere i conti di Victoria’s Secrets e la retromarcia della famosissima maison di intimo, che starebbe per fare dietrofront dalle campagne inclusive per tornare ai corpi sexy che l’hanno resa celebre, la tentazione sarebbe quella di rispondere che è così. Eppure, a ben vedere, forse le cose sono (come sempre) più complesse.

Ma andiamo con ordine: dal 2018, Victoria’s Secrets ha detto basta alle sfilate sexy degli “Angeli” per abbracciare un approccio più inclusivo e aperto a tutti i corpi, in linea con le spinte femministe e intersezionali post #Metoo. Le nuove parole d’ordine sono diventate body positivity, inclusività e diversità, che non si limitava solo alle modelle plus size ma anche transgender e con disabilità.

I mea culpa per i peccati passati però starebbero per diventare storia vecchia e sembra essere arrivato il momento di un nuovo rebranding. Complice un fatturato previsto in calo di 1,1 miliardi di sterline rispetto al 2020, l’azienda per bocca di Greg Unis, brand president, ha iniziato a parlare di come «la sensualità possa essere inclusiva»; presto il “sexy!” potrebbe relegare di nuovo l’inclusività nel dimenticatoio, mentre si iniziano a tirare le ali fuori dalla naftalina degli armadi. Sic transit gloria mundi.

Per molti, questo è un chiaro segno che l’ideologia woke è un fallimento, anche a livello commerciale. Per fatturare ci vogliono gli angeli con addominali di ferro e regimi alimentari da fame (sempre all’insegna dell’empowerment femminile, ovviamente): tenetevi le vostre campagne piene di freak, sembra essere il messaggio.

Eppure, se guardiamo sotto la superficie, quello che ci mostra il fallimento del rebranding (o, forse, sarebbe meglio chiamarlo brandwashing?) di Victoria’s Secrets è il rifiuto, più che dell’inclusività, di quell’impegno artificiale e ipocrita di cui brand e aziende si fregiano per ripulirsi la reputazione e la coscienza sposando le istanze sociali e collettive. Non dimentichiamo che quella dell’azienda di lingerie non è solo una storia di stereotipizzazione e ipersessualizzazione del corpo femminile (e una glorificazione dei disturbi del comportamento alimentare) ma un racconto che si lega a personaggi come Jeffrey Epstein e ai casi di violenza e molestie sessuali a carico dell’ex Ceo e Razek, oltre ai suoi commenti volgari sulle donne transgender e grasse.

“Non solo Victoria’s Secret non ha riconosciuto che era estremamente in ritardo per una festa che era già in pieno svolgimento - ha scritto sul Guardian Barbara Ellen, columnist dell’Observer - ma ha anche incontrato un pubblico pagante ben informato che era troppo intelligente per accettare la brusca svolta di 180 gradi. Le persone potevano dire di essere state costrette a sottomettersi a una cinica sottomissione commerciale. Lo ‘sguardo maschile’ sembrava ancora molto presente, solo che questa volta apparteneva a uomini in giacca e cravatta che osservavano i registratori di cassa”.

Lo scarto sta in quel confine, sottile, tra brand activism e woke-washing. Tra impegno concreto e credibile e advocacy di facciata. In pochi avevano creduto nel cambio di passo di Victoria’s Secrets e nella drastica inversione di rotta, sfidando la compagnia a mostrare che, oltre alle belle parole, c’era di più. Ma c’era?

Non sembra, a vedere con quanta rapidità l’azienda sembra pronta a un nuovo 180° di fronte alle cifre che continuano a calare. Le consumatrici non hanno rifiutato l’inclusività, ma la sua ipocrisia, quel “troppo poco, troppo tardi” che è stato glorificato come una grande e profonda rivoluzione. Basterà riportare in auge la sexiness per far quadrare i conti?

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