Diritti

Gli uomini mi chiedono le cose

Durante incontri e conferenze c’è sempre qualche maschio che mette in dubbio ciò che dico. Di solito non è perché non condivide la mia opinione o mancano le fonti. Ma perché sono giovane e donna
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13 ottobre 2023 Aggiornato alle 06:30

Gli uomini mi chiedono le cose. O meglio, gli uomini eterocissessuali mettono in discussione quello che dico con una frequenza maggiore delle altre persone (nel titolo, però, questa specifica non ci stava). Quale che sia il tema della conferenza o dell’articolo, per non parlare del video: so che un uomo eterosessuale e cisgender è pronto a esordire esprimendo scetticismo rispetto a quello che dico.

È un classico, tant’è che alle conferenze abbiamo iniziato ad accettare scommesse. Chi sarà, tra i presenti? E puntualmente la storia si ripete. Questo non perché io abbia un problema con gli uomini etero e cis, quanto piuttosto perché ogni discorso, ogni contro-narrativa che miri a erodere il sistema delle disuguaglianze ne intacca, inevitabilmente, il privilegio e alla maggior parte di loro questo proprio non va. Sono loro ad avere un problema con una speaker percepita come donna, non il contrario.

Dunque, prendo posto e attendo. C’è un esordio standard: “faccio l’avvocato del diavolo”, “una domanda provocatoria”, “dimmi le fonti”, “non sono d’accordo”. Che verrebbe pure da pensare che un dubbio legittimo andrebbe sempre espresso liberamente, e per carità. Qui però non si tratta del legittimo dubbio intellettuale: qui si tratta di un privilegio di genere, quello di non accettare nulla che provenga da soggetti di cui non si riconosce il valore intellettuale.

Perché dall’esterno, sono percepita come una donna, una donna giovane, una “ragazzina”. E questo fa sì che molti uomini si sentano intitolati a prendere parola e a mostrare dissenso senza nemmeno avere la cura, la decenza, di contro-argomentare in maniera quantomeno coerente. Il problema è che è sempre e solo il potere, e chi lo esercita, a poter chiedere spiegazioni. A noi altre rimane l’onere della prova, il dover dimostrare oltre ogni ragionevole dubbio che siamo degne di parola, di opinione, di tempo. Non sorprende nemmeno constatare che a conferenze affini, precedenti o successive, se i relatori sono persone percepire come uomini i toni non solo cambiano, ma il rifiuto dell’argomentazione non viene nemmeno considerato.

Il maschile egemone, quella performance standardizzata brillantemente descritta da Raewyn Connell, non ascolta nessuno fuorché se stesso. Non accetta nessuno se non il proprio riflesso. Figurarsi se poi il soggetto parlante non solo non è percepibile come uomo, ma è anche intento a parlare di femminismi e antispecismo, di questioni di genere e marginalità. Apriti cielo. Da me, i conti in tasca, non se li vogliono far fare. Qualcuno allora sostiene che sarebbe opportuno che siano avvicinati alla questione da altri uomini.

E qui il problema si moltiplica, perché che femminismo può nascere se la prima voce riconosciuta, ma anche la seconda e la terza rimangono maschili? Che equitá si può raggiungere se al tavolo sono ammesse solo le persone che già vi avevano un posto assegnato da principio? Nessun femminismo, nessuna coscienza politica. Al massimo un po’ di interesse personale. Perché un femminismo intersezionale che si rispetti vuole spezzare le gambe del tavolo, sedere in cerchio e bruciare i palcoscenici.

E di uomini nel cerchio ce ne sono già, parecchi. Ma sono persone che hanno preso quella maschilità dominante e l’hanno messa da parte, accettando che come il genere è un costrutto sociale anche il potere lo è e che, perciò, l’elemento essenziale per una società diversa, è l’allontanamento da quel furto. E sì, perché ogni privilegio esiste grazie a sottrazioni di diritto. Certo, quando lo dico al microfono piace persino meno. Arriva dunque puntuale il contestatore a dire che no, forse non ne so abbastanza per parlare, che mi sbaglio. Da me si aspettano ascolto. Qualche audace un “hai ragione”. Qualche malizioso di vedermi perdere le staffe.

Da qualche tempo, però, succede anche che per ogni uomo che mi mette in discussione solo perché sono percepita come donna, ce ne sono almeno due che sbuffano. Nella marea di compagne stanche di vedere che c’è sempre qualcuno che desidera vedersi riconoscere una superiorità a priori, ci sono anche uomini, anche uomini cissessuali ed etero (pochi eh) che non ne vogliono sapere. Il che mi fa pensare che queste prese di spazio, con domande tendenziose e crivellate di fallacie argomentative che, di fatto, vogliono far leva su una presunta inadeguatezza derivata dall’essere una giovane donna, si stiano ripetendo di fronte a una platea sempre più impermeabile alla maschilità tossica.

Rebecca Solnit parlava di Mansplaining descrivendo la tendenza del maschile egemone a spiegare le cose alle persone percepite come donne, dando per scontato che siano meno competenti. Ed è di questo che si tratta ma non solo: c’è uno scetticismo di genere, una presunzione a priori, che l’altra sbagli. Non è solo una questione di essere considerate meno preparate, ma di essere automaticamente considerate nel torto, indegne di parlare. Al contrario del maschile egemone, che pare sempre avere diritto e titolo di provare a dire la propria. L’imposizione del sé per cancellare la parola altrui.

Anche l’età è un fattore. Di intersezionalitá, crisi climatica e antispecismo, stando al maschile egemone, non si dovrebbe parlare e, se proprio è necessario farlo, è opportuno che lo faccia un uomo, laureato, che abbia almeno superato i 33 anni e che sia incravattato. Allora, in quel caso, si siedono ad ascoltare. Per una con il septum, senza trucco e i capelli sparati per aria, pare non ci debba essere posto.

Una volta partito il confronto, lì si comprende che la materia del contenzioso non è nemmeno il tema, ma la mia persona. La mia identità è considerata contestabile, la mia preparazione opinabile e il mio ruolo riducibile in forza del pregiudizio di genere. Nemmeno a dirsi, è sfibrante. Avvilente. Ma si smorza nell’attimo in cui la dinamica viene snudata e ci si guarda consapevoli che la competenza non ha genere, ma soprattutto, che una soggettività marginalizzata, quando parla ha voce e ragione. Chi finge di ascoltare vuole far rumore per coprire la verità. Puzzano di paura e desiderio di dominio. Quando questa, sempre più sporadica, espressione di maschilità egemone colpisce brandendo lo scettro del discredito sessista, so che spesso agisce per terrore di perdere la presa.

Perciò non mi stupisco, ci scommetto sopra. Così, mi sembra pure più digeribile. Basta mordere forte e masticare bene, poi ci pensano gli acidi gastrici a sciogliere tutto. A squagliare l’ennesimo atto di ordinario sessismo.

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