Ambiente

Viaggio a Dandora Dump Site, la discarica a cielo aperto più grande del mondo

La Svolta ha visitato in Kenya la profonda vallata che un tempo collegava lo slum di Koroqocho al fiume Nairobi. Ora si è colmata e trasformata in una collina di rifiuti tossici. Che a breve diverrà una montagna
Dandora Dump Site
Dandora Dump Site Credit: Luca Attanasio
Tempo di lettura 6 min lettura
13 ottobre 2023 Aggiornato alle 17:00

Un Caronte moderno mi traghetta all’interno dell’inferno passando per una palude Stigia fatta di fanghiglia e ruscelletti di liquame immobile e nero che sta lì da decenni.

Caronte ufficialmente è il chief officier, il sovrintendente comunale di Dandora Dump Site la discarica a cielo aperto più grande del mondo.

Una vallata profonda centinaia di metri che collegava lo slum di Koroqocho al fiume Nairobi ora colmatasi e trasformatasi in una infinita collina fatta di rifiuti tossici. A breve diverrà una montagna.

Cinque anni fa, in occasione di una mia prima visita, era meno estesa e meno alta di centinaia di metri.

Sebbene sia l’orrore conclamato e detenga il drammatico primato di immondezzaio più grande del Pianeta, il Governo continua a considerarla una normalissima discarica e manda ogni giorno oltre 300 camion stracolmi di rifiuti di ogni tipo che scaricano lì i rifiuti raccolti tra i 5 milioni di abitanti in tutta Nairobi.

A differenziarla pensano i waste picker, un esercito di 4.000 individui tra i quali tantissimi bambini, che dividono plastica da metallo, carta, abbigliamento, a volte mangiano l’organico e alla fine della giornata di circa 12 ore di lavoro vendono il ‘raccolto’ a compratori.

In una giornata buona arrivano a 700 scellini (6 euro), pessima 300.

«Ma non crede che il governo e la municipalità dovrebbero intervenire urgentemente e mettere fine a questa situazione impossibile?», chiedo a Michael, un altro sovrintendente impiegato dal Comune prima che esca dal suo gabbiotto all’ingresso, accanto a una serie di lavandini incrostati e in disuso con sopra una scritta che sembra uno scherzo: Covid-19 mitigation.

«Ultimamente hanno messo dei pali della luce all’interno della discarica e sistemato le strade di accesso - mi spiega - per il resto io sono qui per regolare il traffico dei camion e far sì che non ci siano disordini».

I disordini non sono frequenti e tutto procede piuttosto tranquillamente, come se fosse il posto di lavoro più normale del mondo.

I picker lavorano in proprio, si creano propri spazi e specializzazioni, non operano in gruppi, al massimo in famiglia (compresi bambini), e difficilmente in questa landa sconfinata dall’odore permanentemente nauseabondo vengono a contatto.

Sembrano personaggi di un altro secolo deumanizzati dal lavoro che sono costretti a fare. «Sono una single mother con due figli - dice Nancy, una signora sulla quarantina con un sorriso disarmante - Dandoora dà da vivere a me e a loro».

«Ma non è preoccupata per la sua e la loro salute?». «Certamente, ma sarebbe peggio non mangiare».

È il ricatto di un sistema che produce schiavi del lavoro a scapito di dignità, salute e, quindi, vita, che unisce idealmente tanti luoghi e popoli del mondo, da Taranto a Nairobi, dalle miniere di cobalto a Kolwezi, Repubblica Democratica del Congo, fino a quelle di carbone in Cambogia.

«Trattiamo regolarmente patologie che si sviluppano in chi lavora o addirittura vive a Dandoora nel nostro ospedale», spiega Washington Njogu direttore sanitario del Ruaraka Uhai Neema Hospital, nato per volontà della Ong italiana World-Friends. «Malattie della pelle, dermatiti, ci sono famiglie che vivono sotto teli di plastica, mamme che si portano dietro bimbi… e poi, ovviamente, malattie respiratorie. Ce ne sono varie e, purtroppo, nel giro di qualche decennio, vedremo aumentare il tasso di tumore polmonare».

In cima alla collina sovrastata da enormi avvoltoi dall’aspetto minaccioso, che razzolano accanto ai raccoglitori e in alcuni casi li sovrastano, si alzano fumi orridi. «Non sono fuochi accesi da persone – mi dice Stanley Didi, un attivista che con la sua associazione prova a creare almeno coscienza dei diritti tra i lavoratori della discarica e che mi accompagna nel tour – è autocombustione chimica che al termine della giornata si sprigiona per il caldo accumulato».

«Il vero problema – mi dice Gianfranco Morino medico chirurgo e coordinatore dei progetti World Friends in Kenya – è che non c’è la volontà politica di chiudere Dandoora per gli interessi che ci sono dietro soprattutto da parte dei politici, il racket dei rifiuti e poi c’è che la gente dei quartieri limitrofi vive della discarica». È vero, me lo ripetono tutti i raccoglitori intervistati.

In Kenya, ogni giorno vengono prodotte 4.400 tonnellate di rifiuti di plastica. Il 73% di questi rifiuti non viene raccolto, mentre il 27% finisce in discariche come Dandora e altre discariche completamente deregolate. Ma molta di quella plastica viene dall’Europa.

Secondo una recente ricerca di Clean Up Kenya, ogni anno, l’Inghilterra scarica dodici milioni di capi di abbigliamento in “plastica spazzatura” sulle discariche kenyane.

Dei 36.640.890 capi di abbigliamento usati spediti ogni anno direttamente dal Regno Unito al Kenya, fino a uno su tre contiene plastica ed è di qualità così bassa che viene immediatamente gettato in discarica. E questo è solo un esempio di un Paese europeo. Se ne potrebbero portare davvero altri.

Non a caso Simidi Musasia, fondatore di Clean Up Kenya, parla di «colonialismo dei rifiuti».

«Il commercio di abiti usati provenienti dall’Europa – aggiunge - è in gran parte e sempre più un commercio di rifiuti tessili non tracciabile».

Mentre si avvicina una mandria di maiali che ha appena concluso il pascolo nutrendosi di quello che trovava in mezzo a plastiche e rifiuti tossici e bevendo dai liquidi disponibili e si avvia nel recinto del padrone in attesa di venire macellata, passa un pastore membro di una delle tante New Churches.

Mi indica al centro di Dandoora una baracca di lamiera con una bandiera e una croce. È la sua parrocchia e sorge esattamente al centro della collina di rifiuti, per entrarci bisogna saltare i vari ruscelli di liquami, stare attenti a non cadere nei cumuli di rifiuti e respirare fumi tossici e odori impossibili. Il culto domenicale è frequentatissimo.

È il segno forse più eloquente, assieme ai palazzi di recentissima costruzione con vista discarica sorti tutti intorno a Dandoora, di come centinaia di migliaia di abitanti si siano abituati a questo inferno in terra, lo considerino normalità. E con loro, noi, ma con più colpa.

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