Culture

“Io capitano”: ne avevamo bisogno?

I migranti sono persone e hanno diritto a inseguire i propri sogni altrove. Eppure, spesso la loro ricchezza d’animo, fantasia e generosità viene scambiata per “povertà”. Ecco a cosa mi è servito il film di Garrone
Credit: GRETA DE LAZZARIS
Tempo di lettura 6 min lettura
27 settembre 2023 Aggiornato alle 06:30

C’è bisogno di un film per scoprire che i migranti sono persone e, in quanto persone, hanno diritto a sopravvivere, prima di tutto, ovvero a non essere abbandonati in mare mentre naufragano o in mezzo a un deserto, e poi anche a trovare asilo, cibo, calore (umano e materiale), riparo dalle intemperie; e poi ancora un lavoro o un percorso di studi, una sistemazione, una vita sociale? Abbiamo bisogno di un film per scoprire tutto questo?

Una quindicina d’anni fa incontrai un prete anomalo, Arturo Paoli. In tempo di guerra aveva aiutato persone ebree a fuggire dalle persecuzioni nazifasciste; intellettuale, rivoluzionario, era stato collocato dal Vaticano sulle navi mercantili a fare il cappellano per i migranti italiani, col divieto di mettere piede a terra; aveva poi disobbedito stabilendosi prima in Argentina poi girando per l’America Latina, dove era divenuto teologo della liberazione. Teneva conferenze, pubblicava libri ma combatteva anche attivamente povertà e ingiustizie sociali, espropriando terreni per fondare comunità, vivendo nelle favelas e cercando di creare condizioni di vita migliori per le persone più povere. Feci in tempo a frequentarlo negli ultimi lucidissimi anni della sua lunga vita, quando, ormai novantenne, rientrò in Italia.

Parlavamo a casa sua ma soprattutto andavo, la domenica mattina, ad ascoltare le omelie che teneva nella chiesetta di San Martino in Vignale, su un colle dietro Lucca. Aveva passato i 90 anni e arrancava curvo e apparentemente fragile fino alla sua postazione, poi cominciava a parlare. La voce era subito fonda e robusta come il tronco di una quercia secolare. Le sue parole arrivavano dritte come lance al cuore, al cervello, anche al sangue e ai polmoni e mi facevano vibrare così forte che spesso, dopo l’omelia, uscivo tra gli olivi e mi mettevo a piangere. Non ero triste, piangevo per l’emozione.

Mi è capitato di raccontare questa vicenda di recente perché ci si domanda spesso fra amiche, amici, artiste, scrittrici, attiviste, quanto senso abbia continuare a scrivere, a lottare, elaborare, creare e diffondere pensiero se poi, i nostri libri e i nostri articoli, le nostre parole e le nostre creazioni, tendono a girare negli stessi ambienti, a essere fruite dalle stesse persone che già la pensano come noi.

E allora mi viene in mente Arturo Paoli, che non diceva nulla che non pensassi già, non esponeva teorie nuove e non mi spingeva verso posizioni politiche, sociali o culturali che non avessi già assunto. Quello che faceva era intanto parlare bene. Dirle bene certe cose, sbaragliando incespicamenti del cervello, fraintendimenti, incertezze del pensiero, che sono anche incertezze sintattiche, lessicali. E poi dirle con il calore, l’energia, la forza, la creatività sua che rinforzava e coltivava la tua. Era come andare a farsi annaffiare con l’acqua buona, farsi potare i rami secchi, farsi rinforzare con un concime speciale.

Ecco a cosa mi serviva andare ad ascoltare Arturo Paoli e a cosa serve continuare a dire, a creare e a diffondere. Ed ecco a cosa mi è servito il film di Garrone.

Sono entrata in sala pensando che dovrebbero esistere vie legali per viaggiare dall’Africa all’Europa, che le persone hanno diritto di spostarsi sul Pianeta per migliorare o semplicemente cambiare le proprie condizioni di vita, che i confini sono una convenzione discutibile e che tutti nasciamo (o dovremmo nascere) liberi di scegliere come e dove vivere. E sono uscita dal cinema con queste convinzioni rafforzate, potate, concimate, annaffiate e soprattutto fiorite.

I fiori sono anche i volti, i balli, i suoni, i sentimenti, la bellezza che ti entra dentro e torna su magari quando leggi sul giornale un numero: 78, 480, 265 persone affogate, naufragate, morte nel tentativo di raggiungere le coste italiane. I fiori sono anche i sogni, i desideri, i progetti di vita di 2 ragazzi sedicenni, come i protagonisti del film, che vogliono venire in Europa per fare musica. Perché non è solo la povertà estrema, la fame, la sete, le bombe che ti cadono sulla testa a giustificare il diritto di spostarsi. Sono anche i sogni.

E proprio di sogni parla questo film, che sono i nostri, e per nessuno sono facili da realizzare, ma magari, per noi europei, tentare di seguire un sogno non comporta il rischio della vita, di torture, di perdere tutto e tutti, non rivedere più tua madre, veder morire i tuoi compagni di cammino.

Il protagonista della storia non è solo e tanto un disperato, un ragazzo privo di mezzi che viene in Italia per cercare di migliorare le sue condizioni di vita. Lui non viene a prendere, lui viene soprattutto a dare. È un ragazzo con un talento, il senso della musica, del ritmo, la capacità di costruire melodie e canzoni, è un ragazzo allegro e intelligente, che viene per fiorire e far fiorire noi, attraverso il suo contributo umano e creativo.

E già lo fa, durante il viaggio, fermandosi per aiutare chi è caduto, cercando chi si è perso o è stato catturato. Prendendosi carico, alla fine, di una nave piena di persone e tentando di condurle in salvo tutte.

Personne ne mourrà grida nei momenti più difficili. Nessuno morirà!

Quello che il film ci racconta, di questo ragazzo senegalese, è l’immaginazione, la fantasia, l’ironia, la dolcezza, la tenerezza che iniziano nel rapporto con la madre e la sorellina e continuano col cugino e poi con la donna che cade nel deserto e ancora con gli esseri umani che incontra. In una parola, la sua preziosità.

Quando usciamo dal cinema (e questa è, secondo me, la sfida più importante del film), abbiamo in testa e nel cuore non tanto la pena per quello che rischiano e subiscono queste persone, che pure è grande, quanto il senso di spreco e dispiacere per quello che ci perdiamo respingendole, maltrattandole, non permettendo loro di venire a condividere la loro umanità e scambiando per povertà quella che invece è una ricchezza.

Nota su Arturo Paoli

Riceve nel 1999 a Brasilia il titolo di “Giusto tra le nazioni” per aver salvato, durante la Seconda Guerra, diversi cittadini italiani e stranieri ebrei dai nazifascisti. A Lucca nel 1995 il sindaco gli consegna il Diploma di Partigiano. Rifiuta, invece, sempre nel 1995, la medaglia d’oro che annualmente la Camera di Commercio assegna ai lucchesi che hanno onorato la città nel mondo, in nome della solidarietà con gli oppressi del Sud del Pianeta, e in contestazione con l’economia neoliberista che è alla base di tale sfruttamento.

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