Economia

Barbie e la sua potenza immaginifica

Anche se il femminismo vero nella pellicola di Gerwig scarseggia, il film merita comunque tutto il successo (e gli incassi) che ha: la bambola Mattel è capace di ispirare bambine e bambini, adulte e adulti a desiderare di più
Greta Gerwig al Celebration Party di Barbie al Museum of Contemporary Art, Sydney, giugno 2023
Greta Gerwig al Celebration Party di Barbie al Museum of Contemporary Art, Sydney, giugno 2023 Credit: Christopher Khoury/Australian Press Agency via ZUMA Wire
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20 agosto 2023 Aggiornato alle 06:30

L’ultima significativa notizia sul film Barbie è il miliardo e 200.000 dollari d’incasso globale, che incorona la regista Greta Gerwig prima donna nella storia del cinema a ottenere un tale risultato al botteghino. A quattro settimane dall’uscita nelle sale, questa mi sembra la notizia più femminista che riguardi la pellicola che, sbandierata dalla promozione come una sorta di manifesto pop delle neo istanze femministe, da questo punto di vista delude le aspettative.

La sceneggiatura, scritta dalla stessa Greta Gerwing in coppia con Noah Baumbach, si sofferma sulla guerra tra sessi, semplificando il pensiero femminista. Non un accenno alle decennali lotte delle donne (che di certo non si sono limitate all’estetica che la Barbie rappresenta), ma una messa in scena dello scontro tra Barbieland e Kendom sviluppato con frequenti dialoghi e monologhi didascalici che tolgono ritmo al film, il quale viene meno anche alla regola aurea del cinema del “rappresentare e non dire”.

Invece, le Barbie “dicono” addirittura “dissonanza cognitiva”, restituendoci dal grande schermo un’immagine nitida della deriva della nostra società che ha abdicato ai temi politici, delegandoli al marketing e al brand activism.

La Mattel, che commercializza Barbie dal 1959, è anche co-produttrice della pellicola, il cui successo è senza dubbio il risultato di un grande piano di marketing da oltre 100 milioni di dollari. L’obiettivo della strategia è il riposizionamento del brand che vuole appropriarsi dello stesso universo valoriale femminista dal quale era stato criticato in passato, facendo ironica autocritica, mea culpa e infine mostrandosi aperto al cambiamento.

E questa operazione si fa sceneggiatura: la storia della Mattel e della Barbie stessa, in relazione al loro rapporto con la società occidentale, è la traccia del film che come live action cerca paradossalmente di far dimenticare al pubblico che la protagonista non è che una bambola. Operazione che riesce fino a quando arrivano gli “spiegoni” accennati sopra che, nell’interrompere il ritmo della narrazione, risultano improbabili per un gioco tra bambole, ma soprattutto disorientano nell’individuare il target a cui il film è indirizzato.

La spiegazione didascalica è, a tratti, la cifra della pellicola che, durante lo scorrere delle prime immagini, mi ha fatto tornare alla mente una visita di qualche anno fa al Museo dei giocattoli di Praga, il Toy Museum, dove c’è un’ampia e ricca esposizione di Barbie, dai primi modelli, ai pezzi da collezione, fino a quelli a tiratura limitata. È lì che per la prima volta ho visto la bambola del 1959, con il costume a righe bianche e nere senza spalline che nel film cita Stanley Kubrick di 2001 - Odissea nello spazio, esposta a grandezza umana e dove ho scoperto tutte le antesignane della Barbie stereotipo con cui giocavo negli anni ’80.

Non ricordo esattamente cosa facessi fare alla mia Barbie, ma ho dei chiari flashback di lei alla guida di modellini Burago da collezione, fidanzata con Big Jim invece che con Ken, ma soprattutto che abitava in una grande casa di legno a due piani, con quattro stanze e il tetto spiovente, costruita artigianalmente da mio padre, che ingombrava (per la gioia di mia madre!) mezza parete dell’ingresso del nostro appartamento.

Ci giocavo insieme a mia sorella e alla sua Skipper, entrambe incuranti che la bambola avesse la sua villa e la sua Corvette brandizzate ma attratte semplicemente dal mondo Barbie che avevamo rielaborato a modo nostro. Era un mondo molto più divertente e pieno di possibilità di quello di Cicciobello, che ci proiettava alla dipendenza dei bisogni del bambolotto.

Barbie, al contrario, era libertà di fare esperienze, di desiderare qualsiasi cosa, di pensare che tutto fosse possibile (anche essere perfetta come lei). Sembra banale, ma non lo è: alle donne per secoli non sono state concesse le possibilità e le opportunità di scelta e Barbie è la prima bambola che le fa ipotizzare, confermandola ancora oggi un giocattolo intramontabile per il suo immaginario, nel quale generazioni e generazioni di bambine (ma anche bambini) hanno condiviso una parte della loro infanzia dagli anni ’60 in poi. “Immaginario di sogno” che ha portato al successo mondiale di incassi della pellicola.

La strategia di marketing della Mattel, infatti, ha pianificato una serie di azioni che danno forma all’immaginario di Barbie, permettendo alle persone di viverlo o riviverlo, tornando bambini. Due trailer, product placement all’interno del film (dalle Birkenstock ai rollerblade giallo fluo di Impala), decine di accordi di co-marketing con marchi di moda (abiti, borse, accessori), di make-up e igiene orale, di home decor, del mondo dei viaggi (vedi il soggiorno nella Barbie’s Dream House a Malibù proposto da Airbnb o il Telepass Pink!), del fast-food (il Pink Burger con la salsa rosa di Burger King Brasile), senza dimenticare il web con Google che scintilla di rosa per ogni ricerca sulla produzione cinematografica.

Accordi di licenza con Mattel, partnership, prodotti in edizioni limitata, capsule collection, esperienze virtuali e immersive, installazioni, proposte di turismo esperienziale, iniziative e azioni di medio e lungo periodo innescate dal colore rosa come riferimento visivo simbolico. Il successo della bambola Barbie è nella sua “potenza immaginifica” che, nella campagna di promozione del film, viene declinata in una miriade di contesti corollario alla pellicola.

A spingere la maggior parte delle persone a andare a vedere il film è stata la voglia di partecipare a un evento - promosso dall’hype, dal buzz marketing sui social fino alle dinamiche del Fomo - in cui il film è la chiave di accesso a un vissuto emotivo nostalgico, leggero e giocoso (vedi il fenomeno “kidult”), ma soprattutto capace di ridestare quella sensazione di possibilità che il mondo di Barbie offriva.

Una serie di leve che hanno portato ai numeri da record del box office, che dimostrano anche che non è vero che il cinema è morto come alcuni addetti ai lavori sostengono, analizzando sommariamente i dati del botteghino del post-pandemia. Quello che è morto è il modello novecentesco di promozione del cinema, dove bastava una coppia di divi o un regista famoso ad attrarre il pubblico nelle sale. Oggi tutto ciò non è più sufficiente e il film Barbie in questo senso ha molto da insegnare: motivare le persone a uscire di casa per andare al cinema, preferendolo alle piattaforme, è il grado di coinvolgimento che la pellicola produce. Il pubblico vuole essere co-protagonista di una esperienza collettiva, possibilmente appagante e straordinaria, che passi dal reale al virtuale, e viceversa, e che assuma tutte le forme possibili di fruizione.

Questa la vera influenza mediatica di Barbie che fa pensare che, molto probabilmente, la pellicola avrebbe potuto ottenere lo stesso risultato commerciale anche senza farsi pretenziosa portavoce di un femminismo banalizzato, scomodando la rediviva lotta tra maschi e femmine.

Lasciateci sognare e giocare con le bambole.

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