Culture

Le (assurde) tensioni geopolitiche causate da Barbie

Secondo i Repubblicani, la pellicola strizzerebbe l’occhio al Partito Comunista Cinese; anche altri Paesi stanno dibattendo riguardo la presunta propaganda occulta affidata alla bambola più nota del mondo
Credit: ANSA/Zumapress
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18 luglio 2023 Aggiornato alle 06:30

Il film Barbie diretto da Greta Gerwig, che uscirà nelle sale italiane il 20 luglio 2023, negli Usa sta facendo infuriare i Repubblicani.

Poteva essere prevedibile che a innescare la miccia della polemica fosse il claim femminista She’s everything, he’s just Ken (“Lei è tutto, lui è solamente Ken”); e invece, a causare controversie, è una mappa che compare nella pellicola e che raffigurerebbe il Mar Cinese Meridionale con i confini che pretende la Cina, cosa non piaciuta a politici come Ted Cruz, che ha twittato: “I guess Barbie is made in China” (“Suppongo che Barbie sia fatta in Cina”).

I territori della discordia sono contesi tra la Cina, che li rivendica come suoi, e il Vietnam, che sempre a causa della mappa ha vietato il film su tutto il territorio nazionale. Anche le Filippine stanno riflettendo in merito a un’eventuale censura, visto che le aree marittime sono rivendicate da Taiwan, Filippine, Brunei, Malesia e Vietnam.

La Warner Bros ha replicato dicendo che la linea tratteggiante a nove tratti presente nella mappa alle spalle di Barbie, all’origine delle polemiche, «simboleggia solamente il sentiero che dovrà percorrere Barbie dal suo mondo al mondo reale», e che non ci fosse nessun altro tipo di messaggio dietro a essa, ma secondo il Repubblicano Mike Gallagher, la presenza di illustrazioni che ricordano le pretese territoriali del Partito Comunista Cinese «mostra la pressione subita da Hollywood per mano dei censori del PCC».

Nel 2019, la rappresentazione della medesima linea a nove tratti fu la ragione del divieto di proiezione nelle sale in Vietnam e nelle Filippine del film Uncharted, remake del celebre videogioco, con Tom Holland a interpretare un giovane Nathan Drake. La stessa sorte toccò a Abominable (Il Piccolo Yeti), prodotto da Dreamworks, che si rifiutò di tagliare una scena contenente la controversa linea.

Non c’è ovviamente niente di serio in queste accuse verso Barbie e la Warner Bros. Si tratta solo dell’ennesimo tentativo della destra americana, supportata da Fox News, di tenere alta la tensione tra Usa e Cina; è tuttavia curioso che dopo controversie analoghe sul sequel di Top Gun, un altro dei simboli del soft power americano venga accusato di fare propaganda per altri Paesi e di essere una minaccia per la sicurezza nazionale.

Emblematica in questo senso è la dichiarazione di Jim Banks, membro Repubblicano alla Camera dei Rappresentanti per lo Stato dell’Indiana: «Abbiamo sconfitto l’Unione Sovietica con Coca Cola, Levi’s e James Dean. Abbiamo bisogno della superiorità nel soft power tanto quanto della superiorità militare per vincere la nuova guerra fredda con la Cina, e questo è impossibile con Hollywood che lavora al fianco del Partito Comunista Cinese».

Secondo l’inchiesta di Politico, infatti, il Pentagono avrebbe posto ai movie studios l’obbligo di non cedere alle censure cinesi come condizione per fornire qualunque tipo di assistenza necessaria ai registi.

Definire la questione come un episodio di cancel culture è fuorviante: si tratta semplicemente dell’ennesimo caso in cui i Governi cercano di affermare o di mantenere l’egemonia culturale attraverso i prodotti pop.

Barbie è dunque comunista? Con ogni probabilità no, visto che le bambole di plastica non hanno teoricamente ideologie politiche, ma questo lo scopriremo solo nelle sale cinematografiche. La vera domanda è: quante vendite farebbe una bambola di Barbie in versione esperta di geopolitica?

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