Storie

Ivo Mej, Caso Moro: «si passò dall’informazione aderente ai fatti alla spettacolarizzazione»

Per l’autore di Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione in Italia, intervistato da La Svolta, esiste una comunicazione pre e post gli eventi di Via Fani: «I media hanno cominciato a obbedire a logiche che esulano dalle 5W del giornalismo»
Credit: Profilo Facebook Ivo Mej
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14 agosto 2023 Aggiornato alle 12:00

In quello che passò alla storia come l’ultimo discorso di Aldo Moro ai gruppi parlamentari della Dc, il 28 febbraio 1978, il presidente della Democrazia Cristiana, nel mezzo di un intervento delicatissimo in cui doveva convincere i suoi compagni di partito della necessità di proseguire il cammino della “solidarietà nazionale” e di dialogo con il Partico Comunista di Enrico Berlinguer, al fine di rendere le istituzioni politiche più solide e libere da influenze esterne, definì l’Italia come «un Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili».

Il libro del giornalista Ivo Mej, Rapimento Moro. Il giorno in cui finì l’informazione in Italia (Historica, Giubilei Regnani, 16 euro, 175 pagine), prende origine proprio dallo stesso presupposto e analizza la gracilità democratica italiana, soffermandosi su uno dei suoi pilastri: l’informazione.

Il testo, ricco di documenti, testimonianze inedite, ricostruzioni dell’impatto mediatico di tv e stampa e molti contributi, offre un’interessante analisi di quei tragici eventi a partire da un approccio molto originale e, se non unico, raro: a differenza dei tantissimi altri volumi dedicati al caso Moro, il libro di Mej affronta il controversissimo tema scandagliando la copertura dei media italiani degli eventi, a partire dai minuti immediatamente successivi al rapimento a Via Fani, finendo per produrre una preziosa interpretazione.

“Quell’episodio di cronaca nera – scrive l’autore nell’introduzione – che si incastonava in preciso progetto politico, ha cambiato la storia dell’Italia repubblicana. Questa analisi del giorno in cui tutto cambiò in Italia ha la forza travolgente dello sguardo all’indietro di chi ha l’esperienza, la rassegnazione e la consapevolezza che la democrazia è un organismo debole del quale i vasi sanguigni più importanti sono rappresentati dai mezzi di comunicazione di massa”.

“Lo studio sul funzionamento di questo delicatissimo sistema vascolare durante il macabro svolgimento del caso Moro – conclude Mej – spero possa dare un contributo per prevedere le trombosi ormai purtroppo sempre più frequenti”.

La Svolta ha incontrato Ivo Mej e per cercare di capire genesi e sviluppo delle teorie alla base del suo testo e per provare a ripercorrere con lui la storia del “mistero d’Italia”.

Sebbene sedicenne, già seguivi come giornalista il caso Moro…

Diciamo che ho cominciato a esercitare fin da quando avevo 12 anni, scrivevo per il giornale della scuola che frequentavo e ho continuato a farlo anche al ginnasio. Ho avuto ben chiaro cosa volessi fare fin da bambino. Quando avvenne il rapimento Moro scrivevo già per varie testate di quartiere in zona Eur, a Roma, e ricordo bene che oltre allo shock, sentivo il desiderio di seguire come cronista il caso, volevo capire come funzionava il meccanismo mediatico e andai a fare due chiacchiere con Leonardo Valente il capo della cronaca del Tg1 appena qualche settimana dopo.

L’intervista fu un’esperienza unica, intanto perché fu la mia prima introduzione al giornalismo vero e poi perché mi consentì di comprendere alcune cose fin dai primi giorni successivi al rapimento. Ho tenuto il trascritto dell’intervista nel cassetto per anni e poi ci scrissi sopra la tesi per il centro sperimentale, dissi ai docenti: “Vorrei fare la tesi su questo evento di rottura totale della normalità”.

Sebbene con qualche perplessità, la proposta fu accolta e in occasione del trentennale dall’omicidio Moro l’ho riesumata per pubblicare un primo libro. Ottenni un incontro con Cossiga che accettò di scrivere la nota introduttiva. Credo sia stata una delle sue ultime dichiarazioni, molto probabilmente l’ultima sul caso Moro (l’ex presidente morì nell’agosto 2010, ndr). Quella nota (pubblicata nel 2008 nella prima edizione del libro di Mej e riportata anche in quest’ultima, ndr) dice un sacco di cose tra le righe, lancia messaggi a qualcuno di cui ignoro l’identità.

C’è una comunicazione prima e una comunicazione dopo il caso Moro, questa è la tua tesi: vuoi spiegarcela?

C’è un passaggio epocale da un tipo di informazione più aderente ai fatti a uno che spettacolarizza. Il cambio ha un valore ontologico ed etico enorme. In particolare lo possiamo vedere nella televisione. Il modello era prima molto composto e compassato, stile anglosassone. Teneva ben separati politica cronaca spettacolo, sport. Con Moro i 3 piani si fondono improvvisamente.

Prima si assisteva a notiziari molto noiosi e rigidi, da quel 16 marzo 1978, fu proprio il Tg1 a inaugurare l’aggiunta della componente emotiva ed ebbe un successo clamoroso di audience. Il Tg2, infatti, che adottò un profilo più da cronaca e meno da spettacolo fu sostanzialmente ignorato, Rai 1 surclassò 400 a 1 nell’indice di ascolti. Fu il trionfo di Vespa e l’ apertura della stagione delle cosiddette maratone. Ci furono 86 minuti di diretta in cui, ovviamente, le notizie erano più o meno le stesse e potevano essere riassunte al massimo in 3, 4 minuti. Il servizio di Paolo Frajese che con l’ operatore Claudio Speranza (che prese al volo una cinepresa magnetica moderna, pensata per la moda) si precipitò lì e cominciò a riprendere anche i minimi particolari, andò in loop, lo riproponevano tale e quale perché non c’era molto da dire. C’erano lanci di agenzie e interviste a politici che rassicuravano sulla tenuta della democrazia.

La tua ipotesi, quindi, è che da Via Fani in poi, si lanciò un nuova forma di comunicazione in cui la verità cominciò gradualmente a scomparire per far spazio all’audience a tutti i costi?

Direi proprio di sì. I media da quel giorno hanno cominciato a obbedire a logiche che esulano dalle famose 5 domande del giornalismo (chi, cosa, perché, dove e quando, ndr) per finire asserviti a vari poteri. Moro doveva essere sacrificato e in quell’occasione fu messa in moto una manipolazione strategica. Bisognava che tutti, l’intera popolazione sposasse la linea della negazione della trattativa e i media furono i principali strumenti di questa strategia.

Steve Pieczenik, inviato dal Dipartimento di Stato Usa per consigliare Cossiga e per verificare che l’Italia obbedisse al Patto Atlantico e non cercasse di salvare Moro, ha dichiarato in seguito: “Ho messo in moto una manipolazione strategica al fine di stabilizzare la situazione d’Italia”. Moro doveva morire, Kissinger non riusciva proprio a capire questo uomo onesto, di altri tempi, che cercava di portare l’Italia fuori dai blocchi dell’est ma anche dell’ovest. Inoltre da noi il Pci era fortissimo e gli e Usa erano terrorizzati. E da quel tipo di manipolazione deriva un modello di informazione che secondo me perdura tuttora.

Per questo Cossiga scrive nella nota introduttiva del tuo libro che “i mezzi di informazione si comportarono con grande responsabilità”?

Certamente. Il caso Moro inaugurò un sacrificio della purezza dell’informazione sull’altare della ragione di Stato. Chi studia i media deve rendersi conto di cosa lo circonda, l’informazione è molto peggiorata e tutto, secondo me, risale a quei 55 giorni (dal rapimento all’uccisione, ndr) in cui tutto diventa uno spettacolo.

E di manipolazioni clamorose ne sono successe varie in quei 55 giorni…

Almeno 2 di enorme portata. Un primo, clamoroso esempio fu il fatto che tutti si affannavano a spiegare che non bisognasse trattare e che, soprattutto, non ci fosse alcuna trattativa in atto. Un falso assoluto, come si è poi saputo le trattative sotterranee erano diverse, di certo si sa che il Vaticano ne portò avanti una e raccolse una cifra cospicua di denaro per volere di Paolo VI.

Ma poi ci fu il depistaggio sul Lago della Duchessa, ideato da Pieczenik e Cossiga in cui si diffuse artatamente la notizia che Moro fosse morto e che il copro si trovasse lì: centinaia di operatori inviati a dragare, a perlustrare, mezzi e soldi buttati via, dirette televisive per nulla. Fu una mossa per vedere come avrebbe reagito il popolo italiano alla notizia della morte del presidente della Dc.

Il giornalista in genere è strumento ignaro, il direttore gli dice cosa deve fare e non dimentichiamoci che proprio in quel periodo il Corriere ebbe direttori affiliati alla P2 e che, cosa ancora più incredibile, il comitato messo su da Cossiga per la liberazione di Moro era interamente formato da esponenti della P2. Uno, peraltro, il prof. Franco Ferracuti, era consulente della Cia mentre un altro, Stefano Silvestri, del Kgb, a testimonianza di accordi anche in quella sede.

Alberto Ronchey, per capire il livello di manipolazione, scrive in quei giorni che non c’era stato alcun complotto internazionale e che il rapimento era solo il risultato della situazione sociale italiana. Troppe cose non tornano, ma non tornavano già all’epoca.

Immagino che gli operatori giunti sul luogo fossero totalmente impreparati e agissero quasi di impulso di fronte a un caso così inaspettato quanto clamoroso, ma l’indulgere su quel modello che motivi ha?

La risposta viene da quello che mi disse Valente in quella famosa intervista che feci a 16 anni: “Ma hai visto che ascolti?”. Ecco, da lì il criterio divennero tempestività e la ri-espulsione di quanto acquisito nel più breve tempo possibile, lo spettacolo per tenere il pubblico incollato e fare audience. E in quel frangente questo modello si sposò alla perfezione con la necessità di manipolare per indirizzare l’opinione pubblica. Cossiga ebbe un ruolo di primo piano nella manipolazione e secondo me parte delle sue stramberie sono dovute anche ai sensi di colpa.

A ripensare e vederla oggi, credo di poter dire che è sempre più evidente che siamo una sorta di colonia. Siamo stati ricostruiti dagli Usa e dalla mafia italo-americana, siamo un Paese con Governi e opposizioni appiattiti sulla Nato.

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