Storie

Rischi AI: Alphaville aveva già anticipato il dibattito 60 anni fa?

Il film di Godard ha messo in scena, nel 1965, il conflitto tra persone e macchine. Andrew Utterson, autore che si occupa dell’impatto delle nuove tecnologie nel cinema, ne ha parlato a La Svolta
Tratta dal film "Alphaville"
Tratta dal film "Alphaville"
Tempo di lettura 10 min lettura
3 luglio 2023 Aggiornato alle 13:00

Come dimostra il mito di Theuth raccontato da Platone nel Fedro, sin dall’antichità il mondo si può dividere in apocalittici e integrati nei confronti delle nuove tecnologie. Se i primi sono spaventati e si tengono a distanza, convinti che l’uso di nuovi strumenti arrechi solo danni irreparabili, i secondi, entusiasti, ne diventano i primi utilizzatori convinti che ne derivino soltanto benefici.

In realtà, entrambe le fazioni sono formate da “profeti con un occhio solo”, scrive il sociologo e teorico dei mass media Neil Postman in Technopoly. La resa della cultura alla tecnologia, in quanto, si legge nel Fedro, ogni tecnologia è al tempo stesso un danno e una benedizione; non è l’una cosa o l’altra, è l’una cosa e l’altra”.

Oggi il dibattito attorno alla cultura tecnologica si combatte sul terreno dell’uso proprio e improprio dell’intelligenza artificiale (generativa) e il caso di ChatGPT ne è l’esempio lampante.

A differenza di tanti altri tipi di chatbot, ovvero software che simulano conversazioni umane utilizzati soprattutto da siti e-commerce che danno informazioni basilari o aiuto ai clienti online, ChatGPT si è dimostrato essere sorprendente. Non solo è capace di scrivere testi per blog o saggi riguardo le tematiche più diverse, ma è persino abile nel creare linguaggio di programmazione informatica, comporre brani musicali, videogiochi elementari e, con i giusti input, anche poesie strappalacrime.

Cosa resta, quindi, di davvero umano all’essere umano? La risposta è nel lungometraggio Alphaville del regista francese Jean-Luc Godard che nel 1965, quasi 60 anni fa, anticipava il conflitto tra persone e macchine.

Godard, tra gli esponenti della rivoluzione cinematografica nota come Nouvelle vague, utilizza la macchina da presa per raccontare la complessità del vivere quotidiano, denunciando allo spettatore le trappole del capitalismo e del consumismo, e affida al cinema una funzione politica piuttosto che commerciale e di pura evasione.

La Nouvelle vague predilige mezzi di fortuna realizzando opere a basso costo in spazi reali, per le strade e negli appartamenti senza ricorrere a teatri di posa. In Alphaville troviamo infatti queste caratteristiche: pur essendo un film di fantascienza e ambientato nel futuro, la storia in realtà si svolge nella Francia di quegli anni, sfruttando le architetture alienanti frutto del boom economico, senza ricorrere a effetti speciali.

Insomma come scrive Andrew Utterson nel suo saggio Tarzan vs. IBM: Humans and Computers in Jean-Luc Godard’s “Alphaville” dedicato al film: “Non è che Parigi sia Alphaville bensì è l’esatto contrario: Alphaville è Parigi”. Ne ha parlato con La Svolta.

Il regista francese non ha fatto ricorso a effetti speciali eppure il risultato è strabiliante. Oggi accade il contrario si usano effetti speciali soprattutto per sorprendere il pubblico a scapito di una analisi critica della realtà. Perché secondo lei?

Parte della genialità di Alphaville sta nel fatto che il regista, Jean-Luc Godard, e il direttore della fotografia, Raoul Coutard, sono in grado di trovare un futuro distopico nella Parigi contemporanea di allora, utilizzando l’architettura modernista della città e edifici, tecnologie e infrastrutture reali per creare uno sfondo futuristico. Questo approccio è estremamente inventivo per l’uso creativo dei luoghi piuttosto che degli effetti speciali fantastici e ci ricorda la realtà del presente, il futuro nel presente, che è anche il dono della grande fantascienza.

Il protagonista, l’investigatore privato Lemmy Caution (Eddie Constantine) è in missione segreta sotto mentite spoglie nella cittadina tecnocratica di Alphaville, capitale di un’altra galassia. Lì si presenta come il giornalista Ivan Johnson del giornale Figaro-Pravda. Il suo obiettivo è ambivalente: innanzitutto riprendere i contatti con il collega precedentemente partito e di cui non si hanno più notizie, l’agente Dickson (Akim Tamiroff), e poi riportare indietro nei Paesi Esterni (o, in alternativa, eliminare) l’inventore di questa città tecnocratica, il professore von Braun (Howard Vernon), originario di Nuova York il cui vero nome è Leonard Nosferatu.

L’opera di Godard è sperimentale in una maniera tanto semplice quanto inaspettata. Non soltanto perché mescola la fantascienza distopica e il noir, ma proprio perché questo futuro imprecisato in cui si muovono i personaggi non era altro che il presente in cui vivevano già allora milioni di cittadini nella capitale francese, quindi ambiente e contesto non sono affatto irrealistici. Il titolo del film è un nome parlante: Alphaville si potrebbe tradurre come “la prima tra le città”. E infatti è la prima città (di un’altra galassia) dove vige la dittatura tecnocratica generata dal computer Alpha 60 (α60), la cui voce meccanica tutto pervade. Le parole chiave sono: silenzio, logica, sicurezza, prudenza e gli abitanti privati dei propri sentimenti diventano essi stessi macchine.

In questa vita quotidiana regolata dal supercomputer programmato dall’ingegnere di origine terrestre von Braun, l’agente Caution arriva guidando la sua automobile, una Ford Galaxie bianca, per circa 9 milioni di km, lo spazio intersiderale, dunque, è percorribile su gomma. Poco dopo il suo arrivo, in albergo, conosce Natacha (Anna Karina), figlia del professore von Braun, addestrata per tenere compagnia agli ospiti che sono perlopiù turisti. Presto se ne innamora e altrettanto presto capisce, anche grazie all’aiuto del collega Dickson, che non solo Natacha ma la maggior parte dei cittadini di Alphaville è senza emozioni e anaffettiva. Qui, su quest’altro Pianeta, le parole “coscienza” e “amore” non esistono, il perché è proibito ed è stato sostituito dal poiché, non si pongono domande ma si danno risposte.

La gente ha l’aria triste e scura, i rapporti umani sono inesistenti nonostante si senta spesso ripetere dagli abitanti «Io sto benissimo, grazie, prego», frase ricca di significato che diventa un intercalare nonsense, come se a pronunciarla fossero chatbot addestrati con dovizia ma inespressivi. L’investigatore privato (e con lui chi guarda) scopre quindi che molti abitanti si suicidano perché non riescono ad adattarsi al sistema. Chi non si toglie la vita e non si adatta ai diktat della gigantesca macchina programmatrice α60 viene giustiziato in quanto inassimilabile.

Il riferimento alla dittatura nazifascista non è solo teorico, ma si svela nudo e crudo anche nell’azione. L’agente Caution, infatti, assiste a una esecuzione in piscina contro i non assimilabili che, andando verso la morte consapevolmente, rappresentano e incarnano, fino agli ultimi secondi di vita, la libertà. In questa atmosfera agghiacciante per la sua normalità, Lemmy Caution tenta di avvicinarsi al professor von Braun, ma è inutile. Anzi, viene portato di forza al controllo degli abitanti che consiste in un interrogatorio a tu per tu con il computer cui tutti sono sottoposti, anche i turisti, per sondarne la pericolosità. Il dialogo serrato che segue è la metafora del conflitto essere umano-macchina e le parole di Caution non rappresentano altro che il punto di vista di Godard sul tema.

Il cinema si è occupato spesso del rapporto persone-macchine. Prima e dopo Godard, per esempio Metropolis (1927) di Fritz Lang, Tempi moderni (1936) di Charles Chaplin, 2001-Odissea nello Spazio (1968) di Stanley Kubrick e ancora Blade Runner di Ridley Scott (1982), i vari Matrix (1999), A.I. Artificial Intelligence (2001) di Steven Spielberg, Her (2013) di Spike Jonze. Qual è, in questo contesto, il valore aggiunto di Alphaville?

Alphaville esplora idee che sono sia particolari al mondo della metà degli anni ‘60, sia attuali e risonanti oggi, in termini di relazione fondamentale tra esseri umani e macchine. Per quanto riguarda gli anni ‘60, il film esplora il modo in cui le concezioni dell’umano e della macchina sono state riconfigurate in quegli anni, nel mezzo dell’ascesa dei sistemi informatici e di altre forme di tecnologia, insieme a forme di tecnocrazia e sistemi di pensiero tecnico. Il titolo originale del film, Tarzan vs. IBM, è un modo giocoso per evidenziare la dualità simbolica tra persona e macchina che persiste ben oltre Alphaville: cosa definisce l’uno rispetto all’altra? L’innato umano (l’amore, la poesia, il linguaggio, ecc.) è minacciato da un mondo di macchine in cui la logica informatica e il razionalismo scientifico hanno preso il sopravvento?

Tutta Alphaville è sorretta da una enorme mole di processi tecnici. La città è divisa in 2 zone, una Nord e una Sud, i cui climi sono controllati affinché una produca sempre neve e l’altra perennemente il sole. Nessun parametro dell’esistenza, nemmeno il clima, può e deve sfuggire al controllo della scienza e della tecnologia. Agli abitanti viene distribuita anche una bibbia, cioè un dizionario (aggiornato quasi ogni giorno), che impone il lessico da utilizzare. In questo mondo automatizzato il personaggio di Natacha von Braun è l’unico che compie un arco narrativo di trasformazione totale. Sebbene molte parole le abbia dimenticate per far posto alle nuove, sentimenti ed emozioni, invece, non sono svaniti. Sono soltanto assopiti: quando l’agente Lemmy Caution viene catturato, con la forza lei versa una lacrima, segno inequivocabile della sua umanità.

La vicinanza con l’investigatore l’ha resa vulnerabile e Caution scorge in lei la speranza di una salvezza emotiva. Inizia quindi a leggere insieme alla donna alcune poesie dal libro che gli ha dato il collega Dickson prima di morire: Capitale de la douleur di Paul èluard. L’arma per combattere la disumanizzazione perpetrata dall’intelligenza artificiale c’è ed è la poesia.

Molte frasi del film sono memorabili, tra le tante: “La gente è diventata schiava della probabilità”. Quanto è stato lungimirante Jean-Luc Godard e qual è la sua eredità?

“La gente è diventata schiava della probabilità” è una delle battute più memorabili di Alphaville, un film che ci ricorda le possibilità poetiche del linguaggio al di là dell’approssimazione AI dei sistemi algoritmici di sintassi programmata. Se l’esistenza o l’obsolescenza programmata per mano dei supercomputer è stata la realtà emergente degli anni ‘60, queste visioni sono profetiche anche nel prevedere il mondo di oggi, quando la nostra stessa umanità viene ulteriormente ridefinita nelle relazioni reciproche con i computer di un tipo o dell’altro. Inoltre Godard attinge a molti autori della letteratura, della filosofia e della poesia. Tuttavia i capisaldi sono il poeta francese Paul èluard e lo scrittore argentino Jorge Luis Borges. Se il primo è citato inquadrando il libro, il secondo è invece presentato velatamente. Più nel dettaglio Lemmy Caution, simbolo dell’individualismo e dell’umanesimo, dà voce al pensiero di èluard; il suo avversario, il computer Alpha 60, emblema del totalitarismo, parla attraverso i brani di Borges, in particolare si fa riferimento al saggio Nuova confutazione del tempo del libro Altre Inquisizioni.

Questi 2 scrittori, con le loro opposte posizioni letterarie, sono utilizzati dal regista francese per creare la tensione che struttura l’intero film: èluard è il poeta d’amore per eccellenza, il sostenitore lirico dell’intimità umana, Borges è l’architetto delle finzioni intellettuali. La pellicola, di produzione franco-italiana che ha vinto l’Orso d’oro nel 1965, così ben intrecciata e interpretata, si chiude con un lieto fine non privo di violenze. Anche la fotografia ha un ruolo fondamentale in questo film. Il bianco e nero e l’alternanza di luce e oscurità, orchestrate con maestria, rendono visivamente le 2 parti in contrapposizione: il grigio della città contrasta con le luci accecanti dei centri nervosi elettronici, il cui lampeggiare intermittente è corollario del codice binario. La supremazia della scienza e della matematica invade lo schermo anche con formule matematiche ripetute quasi a creare un incantesimo ipnotico.

Dal punto di vista sonoro α60 emette bip simili al codice Morse e la sua voce meccanica originaria è, ironia della sorte, la voce di una persona vera con una scatola vocale meccanica: si tratta infatti di un essere umano la cui laringe era stata danneggiata dal cancro e che è voluto rimanere anonimo. L’incontro-scontro tra persona e macchina raccontato da Jean-Luc Godard trova analogie con il nostro presente in bilico tra il capitalismo della sorveglianza e l’egemonia dell’algoritmo.

L’AI diventerà preponderante nel cinema del futuro?

Mentre rimane la prospettiva che autori artificialmente intelligenti saranno presto (se non già) in grado di simulare tutti gli elementi del cinema, un film come Alphaville e un regista come Jean-Luc Godard ci ricordano le qualità essenziali del regista come originale, un autore davvero oltre i mezzi artificiali.

Leggi anche
Intelligenza artificiale
di Sara Baroni 8 min lettura
AI
di Antonio Pellegrino 2 min lettura