Ambiente

Prepariamoci a sopravvivere nell’era del “pirocene”

I roghi canadesi e i livelli di inquinamento dell’aria da record ci ricordano ancora una volta come gli effetti della crisi del clima possano incidere su territori sempre più esposti al rischio incendi
Credit: Nova Scotia Government/Xinhua via ZUMA Press)
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12 giugno 2023 Aggiornato alle 18:00

L’era del “pirocene” è sempre più evidente e lo sarà probabilmente ancora di più a partire da quest’estate e da inizio autunno, quando nel mondo comincerà a farsi sentire El Niño.

Quanto sta accadendo in Canada, con oltre 400 roghi all’attivo difficilissimi da controllare e con il conseguente fumo che ha impattato con tanto di problemi di aria irrespirabile lungo la costa est degli States fino a New York, è l’ennesimo preoccupante segnale di come la combinazione fra le attività umane, il conseguente aumento delle emissioni e l’accelerazione della crisi del clima, abbiano trasformato i nostri territori rendendoli sempre più esposti alle fiamme, sia quelle dolose che quelle accidentali.

Terreni più aridi, siccità, vegetazione esposta alle ondate di calore così come foreste più soggette agli incendi, sono stati al centro di un susseguirsi di roghi importanti che nell’ultimo anno, dal Mediterraneo all’Australia, dal Canada sino all’Europa dell’est o al Sudamerica hanno bruciato migliaia di ettari nel mondo impattando su milioni di vite. Quella attuale, in Quebec, è una situazione senza precedenti: tenendo conto che i mesi più caldi e secchi dell’anno devono ancora arrivare appare purtroppo solo l’anteprima di ciò che potrebbe accadere a breve.

Paul Kovacs, direttore esecutivo dell’Institute for Catastrophic Loss Reduction della Western University, ha spiegato che ormai «gli incendi primaverili sono molto più frequenti rispetto a 20 o 30 anni fa. E se nelle prossime settimane potremo avere un po’ di tranquillità con il ritorno del verde, subito dopo saremo di nuovo in allarme».

Sebbene ci siano ancora politici o autorità che puntano il dito contro “falò e fulmini” come causa principale degli incendi, secondo la comunità scientifica è però indubbio come la crisi del clima sia una concausa decisiva legata a come l’uomo con le sue attività abbia modificato i territori in cui questi incendi divampano.

Parallelamente, oltre alla natura, è lo stesso uomo a pagare in termini di salute gli effetti dell’era del pirocene: l’8 giugno è stato stabilito come l’inquinamento atmosferico (in particolare negli Usa) ha raggiunto uno dei livelli peggiori mai registrati con i ricercatori della Stanford University che hanno calcolato che un americano medio è stato esposto a 27,5 microgrammi per metro cubo di piccole particelle (come le polveri sottili) dovute ai roghi canadesi.

«Non abbiamo mai visto eventi del genere, o quasi, sulla costa orientale. È un evento storico», ha detto Marshall Burke della Stanford University. Negli States oltre 60 milioni di persone, come l’intera popolazione italiana, è stata esposta a oltre 50 microgrammi per metro cubo d’aria.

In certe zone, come a New York, il particolato ha raggiunto circa i 195 microgrammi, oltre 5 volte i valori Oms e questo potrà inevitabilmente portare a aumento di malattie respiratorie soprattutto tra le fasce di popolazione più vulnerabili come anziani e bambini.

In generale, secondo il Woodwell Climate Research Center, così come avvenuto in Siberia, la crisi del clima sta portando le stagioni degli incendi a essere più lunghe e impattanti a causa di condizioni di che favoriscono la combustione degli ecosistemi.

Come raccontano diversi media statunitensi questa settimana, quella del fumo canadese, per milioni di americani è diventata una prova di come gli effetti della crisi del clima possano impattare sulla vita quotidiana, tanto da dover chiudersi in casa o indossare mascherine, rendendo “più evidenti per tutti l’azione della crisi del clima e la necessità di affrontare a livello globale il surriscaldamento e le sue cause”.

«Quando si verificano, questi eventi sono un’opportunità davvero importante per aiutare il pubblico a stabilire una connessione tra questo tipo di eventi e il cambiamento climatico e aiutarli a capire cosa possono fare», ha ricordato Meade Krosby dell’University of Washington.

Sperimentare in prima persona le condizioni meteorologiche estreme può infatti “cambiare il modo in cui le persone pensano al cambiamento climatico”, hanno detto i ricercatori e allo stesso tempo a portare a ragionamenti su “prevenzione e adattamento”.

Prevenzione e riduzione delle emissioni, a cominciare dall’addio ai combustibili fossili, saranno dunque sempre più determinanti in futuro nel tentativo di ripristinare territori che possano reggere l’impatto di fulmini, roghi dolosi o accidentali.

Alcuni studi svolti alla British Columbia nel 2017 dimostrano che gli incendi in quell’area erano stati da sette a undici volte più potenti rispetto a quelli possibili senza le emissioni causate dall’uomo. Cifre che ci ricordano, anche in vista dell’estate nel Mediterraneo colpito da siccità sin da inizio anno, l’importanza di lavorare per prevenire quelli che potranno essere - oltretutto con l’arrivo di El Niño in varie zone del Pianeta - condizioni estreme per una Terra dal clima malato.

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