Culture

Contro il femminismo bianco

Il saggio di Rafia Zakaria ci mette di fronte ai numerosi problemi del femminismo bianco. E chiama all’azione per una trasformazione radicale
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2 luglio 2023 Aggiornato alle 11:00

Il femminismo ha un problema con il colore della pelle.

Lo squilibrio di potere ereditato del colonialismo non ha risparmiato il movimento di emancipazione delle donne, nato d’altronde in due contesti, quello britannico e quello statunitense, dove l’oppressione di persone non bianche era all’ordine del giorno.

Parte da qui Rafia Zakaria, nel suo saggio Contro il femminismo bianco. Appunti per un cambiamento radicale (Add editore, 18€), per analizzare la pervasività del privilegio e del razzismo nel femminismo bianco, che ha preso le rivendicazioni di un gruppo ristretto di donne (bianche, borghesi, occidentali) e le ha assunte a rivendicazioni universali, estromettendo dal discorso tutte le altre donne del mondo.

L’autrice inizia con un excursus storico analizzando l’intricato equilibrio mantenuto dal femminismo tra istanze di liberazione da un lato, e l’avvallo a sistemi di oppressione per razza (e classe) dall’altro. Fin dagli albori del movimento, durante la lotta per il suffragio femminile e l’emancipazione, le donne bianche, pur rivendicando diritti e libertà per se stesse, non misero mai in discussione il dominio coloniale o la segregazione razziale, anzi. Spesso la presunta superiorità dovuta alla bianchezza venne utilizzata per supportare le rivendicazioni, come aveva messo già in luce negli anni ’70 Angela Davis nel suo Donne, razza e classe.

Come sottolinea Zakaria dalle pagine del libro: “Il colore della pelle e il femminismo sono connessi come non mai nella lotta per il suffragio femminile. Si potrebbe persino affermare che le richieste delle suffragiste siano state prese sul serio solo perché esistevano in rapporto e in opposizione alla prospettiva più disturbante di concedere la cittadinanza agli uomini neri, brown e asiatici che erano stati colonizzati e, in alcune parti del mondo come gli Stati Uniti, ridotti in schiavitù.”

L’autrice denuncia con forza le dinamiche razziste, colonialiste e occidentalocentriche che pervadono il femminismo, a partire dalle sue teoriche più in vista come Simone de Beauvoir, Kate Millett, Eve Ensler e Gloria Steinem. Le donne non bianche di fronte a questo plotone di “esperte” bianche si sentono escluse e finiscono per allontanarsi da un femminismo che non le rappresenta, che è incapace di accogliere e comprendere i loro punti di vista e che tende a fagocitare ogni idea e istanza e modificarla a suo vantaggio. Un femminismo che è più propenso a estrarre valore, che non a crearne.

Sottocategorie del femminismo bianco

Sono quattro le tipologie di femminismo bianco identificate da Zakaria come particolarmente escludenti e aderenti a dinamiche di oppressione.

In primis il femminismo a cascata, fortemente intrecciato al mondo degli aiuti umanitari e affetto dalla sindrome del “white savior”, con la presunzione di sapere di che cosa hanno bisogno le altre donne meglio delle dirette interessate.

Tipiche di questo tipo di femminismo sono azioni plateali volte ad aiutare chi è meno fortunata (ovviamente rispetto agli standard occidentali) senza conoscere né tenere minimamente conto del contesto socio-culturale e soprattutto dei desideri e le aspirazioni delle destinatarie degli aiuti.

Parente molto stretto del femminismo a cascata è il femminismo securitario: fiorito negli Stati Uniti dopo l’attacco alle Torri Gemelle, pretende di utilizzare efficacemente il dispositivo della guerra a favore dei diritti delle donne.

Negli anni subito dopo il 2001 sono state molte le figure di spicco del femminismo statunitense, come Gloria Steinem, Meryl Streep, Susan Sarandon e Eve Ensler, che si sono schierate a favore dell’intervento militare, in Afghanistan prima e in Iraq poi, sostenendo che questo avrebbe contribuito alla liberazione delle donne.

Secondo Zakaria, questo atteggiamento non è solo deplorevole perché sposa in pieno dinamiche violente e di matrice neocoloniale, ma è anche completamente cieco rispetto alle conseguenze che un conflitto ha, in particolare sulle donne e sulle relazioni comunitarie che sono alla base della vita e della resistenza femminile in tali Paesi.

“Le femministe bianche identificano il progresso in una competizione con gli uomini bianchi per gli incarichi del neoimperialismo - scrive Zakaria - anziché in una rinuncia alle guerre e all’impero”.

Il terzo femminismo esaminato da Zakaria è il femminismo della scelta, caratterizzato da un approccio acritico, edulcorato e in definitiva non trasformativo. Questo femminismo celebra le scelte delle donne a prescindere, senza esaminarle criticamente o giudicarle nel caso in cui siano dannose per altre donne.

Il femminismo della scelta di fatto rende qualsiasi decisione presa da una donna una decisione femminista. Ma se tutto è femminista niente lo è. La deresponsabilizzazione delle scelte e la scissione tra personale e politico è un enorme ostacolo al cambiamento perché anestetizza l’azione individuale nei confronti del bene collettivo.

L’ultima categoria del femminismo bianco messa sotto la lente di ingrandimento da Zakaria è il femminismo sex-positive. La critica di Zakaria non è mossa alla libertà sessuale, ma all’aver accettato senza riserve l’atto eterosessuale come esempio primario (quando non unico) di libertà, senza sottoporlo a scrutinio, né analizzarne le dinamiche di potere.

Mettere il sesso al cuore della visione femminista non solo ha posto in secondo piano altri aspetti dell’emancipazione, forse meno individualistici e pop ma comunque cruciali, ma ha anche trasformato la libertà sessuale nel metro di paragone con cui misurare il grado di empowerment delle donne, soprattutto quelle non bianche, senza considerare che “proprio il conservatorismo sessuale che viene spacciato come un segno di arretratezza nelle società non bianche, in realtà è un lascito delle potenze coloniali”.

Il saggio di Zakaria non è per tutti i palati. Per affrontarlo, in quanto donne bianche e femministe, serve una buona dose di umiltà e voglia di mettersi in discussione e decostruire paradigmi vecchi di decenni.

Ma l’appello è chiaro. Ci serve un nuovo femminismo.

Un femminismo in grado di includere punti di vista diversi, di guardare con occhio critico la propria storia e di riscriverla ove necessario, di rimettere in discussione le teorie e le teoriche che fino a questo momento sono parse intoccabili, di valorizzare tipi diversi di competenze e conoscenze, un femminismo che abbandoni la gerarchia tra teoria ed esperienza e che lasci spazio non solo a chi di femminismo parla e scrive, ma anche a chi lo vive sulla propria pelle ogni giorno, anche in modi che escono dal paradigma dominante.

Solo così il femminismo smetterà di essere un brand esclusivo e diventerà il vero motore del cambiamento sociale.

“Il cambiamento di cui abbiamo bisogno - conclude Zakaria - di cui il femminismo ha bisogno, è un cambiamento trasformativo. L’analisi di come e dove apportarlo deve essere intersezionale, considerare il colore della pelle, la classe e il genere, e prevedere correzioni sia redistributive sia riconoscitive. Queste sono le esigenze del momento, ma nessuna può concretizzarsi senza una riscossa collettiva”.

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