Futuro

La demenza senile disturba il sonno, non solo quello umano

Un nuovo studio pubblicato su Frontiers rileva come anche i cani anziani affetti da demenza sembrano dormire meno tempo rispetto a quelli con il cervello sano
Credit: Dominika Roseclay
Tempo di lettura 2 min lettura
1 maggio 2023 Aggiornato alle 21:00

I cani affetti da demenza senile sembrano dormire meno tempo rispetto a quelli con il cervello sano, rispecchiando i modelli osservati negli esseri umani. Lo rileva un nuovo studio pubblicato il 28 aprile sulla rivista Frontiers in Veterinary Science.

I ricercatori hanno condotto registrazioni polisonnografiche su 28 cani anziani di età compresa tra 10 e 16 anni durante il tipico riposo pomeridiano di 2 ore, registrando le onde cerebrali degli animali attraverso l’elettroencefalogramma.

In questo modo è stata calcolata la percentuale di tempo trascorso negli stati di veglia, sonnolenza, sonno NRem (Non-rapid eye movement), vale a dire tranquillo e sincronizzato, e Rem, agitato e caratterizzato dall’attivazione endogena del cervello, nonché la latenza nei tre stati di sonno.

I risultati mostrano come i cani con punteggi di demenza più alti e con prestazioni peggiori in un compito di risoluzione dei problemi abbiano trascorso meno tempo nel sonno NRem e Rem.

Inoltre, evidenzia lo studio, le analisi elettroencefalografiche quantitative hanno mostrato differenze nei cani associate all’età o alle prestazioni cognitive, alcune delle quali riflettono un sonno più superficiale nei cani più colpiti.

«Gli esseri umani con demenza hanno spesso disturbi del sonno e questa ricerca suggerisce che non siamo soli», ha dichiarato al The Guardian l’esperto di salute canina Nick Sutton, che ha sottolineato «l’importanza di parlare con il veterinario se noti cambiamenti preoccupanti nel tuo cane, inclusi comportamenti insoliti durante il sonno».

Al momento non esiste una cura efficace contro la demenza senile, e studi simili, ha commentato Natasha Olby della North Carolina State University e autrice dello studio, possono aiutare a «cercare modi per trattare la malattia di base» anche negli esseri umani.

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