Diritti

Sudan: cosa sta succedendo?

Dalla dittatura di al Bashir al Governo civile al 50%, fino al golpe che ha dato vita a nuove repressioni: cronistoria degli eventi che stanno portando il Paese sull’orlo di una guerra civile
Credit: PETER LOUIS GUME | AFP.       
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28 aprile 2023 Aggiornato alle 17:30

Tutti scappano; resta il Sudan, solo con i suoi fantasmi e una società civile vitale, combattiva, ma sempre più isolata.

Si potrebbe riassumerne con questa frase la situazione del grande Paese africano a quasi 2 settimane dallo scoppio degli scontri che stanno facendo rapidamente scivolare la Nazione verso la guerra civile.

Il Sudan era stato fin qui un miracolo politico. Nel 2019, tra la sorpresa di tutto il mondo, mise su una propria “Primavera” con milioni di cittadini in piazza a chiedere maggiori diritti, misure di contrasto alla crisi economica e libertà; una “Primavera” che riuscì nell’impresa di spodestare pacificamente uno dei peggiori dittatori della storia dell’Africa post-coloniale. Omar al Bashir, l’indistruttibile tiranno salito al potere nel 1989 con un colpo di stato sostenuto dal radicale Hassan al-Turabi, diede il via a un classico regime islamico e trasformò da subito il Paese in una sorta di autarchia violenta a stampo religioso.

In 30 anni collezionò una galleria degli orrori da far impallidire gli altri dittatori contemporanei. Agli inizi del nuovo millennio, firmò una feroce repressione contro le popolazioni civili nella regione sudanese del Darfur (400.000 morti e 2,5 milioni di profughi), che molti osservatori non esitano a definire genocidiaria.

Offrì ospitalità a Osama bin Laden e la possibilità di addestramento ai suoi miliziani, mentre continuò a compiere orrori in casa e all’estero. Nel 2009 i numerosi reati gli costarono la condanna dell’Aia, con la conseguente richiesta di estradizione (mai eseguita) per crimini di guerra e contro l’umanità.

Con il despota assicurato al carcere di Khartoum e il suo cerchio magico disperso o a sua volta imprigionato, a partire dai mesi successivi alle rivolte si innescò una fase transitoria che condusse al primo esperimento di Governo con presenze di civili (dal 1956, anno dell’indipendenza dal Regno Unito, il potere aveva sempre avuto una forte connotazione militare, ndr).

Al primo ministro Abdallah Hamdok, economista che aveva ricoperto vari incarichi politici a livello nazionale e internazionale (era stato nella Commissione Economica per l’Africa dell’Onu e nella Banca africana di sviluppo), fu affidato il timone di un esecutivo al 50% militare e al 50% civile. Il compito era arduo ma l’entusiasmo e il sostegno della popolazione resero l’impresa possibile.

Nell’ottobre del 2021, però, dopo una serie preoccupante di segnali di insofferenza dei membri dell’esercito o dei gruppi paramilitari perennemente presenti in Sudan e abituati a spadroneggiare (primi fra tutti le Rapid Support Forces - Rsf di Momahed Hamdan Dagalo, detto Hemedti, uno dei due contendenti oggi in lotta per il controllo del Paese, ndr), un gruppo di ufficiali capitanati da Abdel Fattah al-Burhan (l’altro contendente), capo dell’esercito e Presidente fino a quel momento del Consiglio Sovrano di Transizione (capo dello Stato de facto), inscenò un golpe che mise fine al periodo di transizione, chiuse in cella il premier Hamdok e diede il via a nuove repressioni contro la vitalissima società civile che continuava pervicacemente a chiedere democrazia piena.

Lo scorso dicembre, però, quando ormai le speranze andavano esaurendosi, su egida Onu è stato convocato un tavolo negoziale che avrebbe dovuto segnare una road map per la costituzione di un Governo costituito al 100% da civili, nuove elezioni e un passaggio deciso verso democrazia e diritti. La situazione, quindi, è precipitata sul più bello. A un passo dalla realizzazione di un meraviglioso sogno, il Sudan è crollato nel peggiore degli incubi.

Il resto è cronaca. L’accordo, che prevedeva la formazione di un unico esercito e la progressiva uscita di scena delle forze paramilitari, ha creato forti malumori nel campo delle Rsf. Dagalo, l’uomo forte di Khartoum, vecchio sodale di al Bashir (ma anche al-Burhan lo era) si è visto sottrarre il potere immenso fin qui incontrastato e, con esso, il controllo sulle ricchissime miniere d’oro e ha mosso guerra contro al-Burhan.

La situazione, tra tregue chiamate e quasi mai rispettate, combattimenti durissimi nella capitale e in altre regioni, a ormai 2 settimane dall’inizio degli scontri, è sull’orlo del conflitto civile aperto. Il Paese, vicino al traguardo di un laboratorio modello di transizione dalla dittatura alla democrazia, si trova ora nel caos più totale.

È solo. Le diplomazie di tutto l’Occidente, il personale di organismi transnazionali, in alcuni casi coinvolti negli scontri, sono in fuga da Khartoum mentre le presenze europee e occidentali sono ridotte ormai a qualche membro di Ong e a pochissimi missionari.

I morti si avvicinano alla cifra (secondo molti ampiamente sottostimata) di 500 mentre i feriti, con molti degli ospedali chiusi o impossibilitati a operare, sono oltre 4.500. L’Organizzazione Mondiale della Sanità, inoltre, ha denunciato un “enorme rischio biologico” dovuto al fatto che i combattenti hanno preso possesso di un laboratorio di Khartoum contenente campioni di poliomielite, morbillo, colera, e altre malattie infettive. Nel frattempo, alla mezzanotte del 24 aprile, è stata concordata una tregua di 72 ore grazie agli auspici del Segretario di Stato americano Antony Blinken. Ma sono varie le fonti che riportano il fallimento del cessate il fuoco in diverse aree.

Almeno 20.000 sudanesi, moltissimi bambini e donne provenienti dal Darfur, una delle regioni più colpite dalle violenze, sono fuggiti nel vicino Ciad, un Paese con gravi problemi interni che già ospita 600.000 profughi di varie nazionalità. Sono in molti a temere, se non una internazionalizzazione del conflitto, un allargamento delle conseguenze con successive instabilità in aree già provate da situazioni complesse: come l’Etiopia, alle prese con un difficilissimo processo di pace dopo oltre 2 anni di guerra in Tigray, o lo stesso Ciad, colpito da instabilità e siccità, o il Sud Sudan, che fa i conti con problemi ambientali, conflitti e una transizione democratica che fatica a raggiungere traguardi.

A completare un quadro a dir poco inquietante, la notizia della liberazione di leader politici vicini all’ex regime, imprigionati all’indomani delle rivolte del 2019, che approfittano del caos per tornare in pista.

Il 25 aprile è uscito dal carcere di Kober, a Khartoum, Ahmed Haroun, capo del Partito del Congresso Nazionale (la formazione di al Bashir, ndr), uno delle decine di politici e funzionari sudanesi arrestati per vicinanza alla dittatura. Ricercato dalla Corte Penale di Giustizia dell’Aia per crimini di guerra e contro l’umanità, Haroum è stato per molti anni al Governo ricoprendo vari incarichi, tra cui Ministro degli Interni e, quasi a motivo di beffa verso gli oppositori, Ministro per gli Affari umanitari.

Inutile aggiungere che queste improvvise scarcerazioni inducono molti a pensare che la prossima sarà quella del famigerato dittatore. L’ufficio stampa della polizia sudanese ha dichiarato alla Cnn che Bashir sarebbe ancora sotto la custodia delle forze armate in un ospedale militare a Omdurman, a ovest di Khartoum. Ma lo stesso dicastero aggiunge senza imbarazzi che «Tutti gli ex leader del regime sono stati evacuati dalla prigione di Kober». Ora sono a piede libero e hanno professato la loro lealtà alle forze governative nella speranza che le Rsf di Dagalo siano sconfitte.

Il timore che dal caos si torni al passato aumenta al passare delle ore.

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