Diritti

2022: l’anno della repressione talebana dei diritti delle donne

Tornato al potere ad agosto dell’anno scorso, il gruppo di fondamentalisti islamici aveva promesso libertà alle afghane. Ma non è andata così
Credit: EPA/STRINGER

«Ci impegniamo per i diritti delle donne all’interno della Sharia. Lavoreranno fianco a fianco con noi. Non ci saranno discriminazioni». Rileggere le parole del portavoce dei talebani Zabihullah Mujahid, pronunciate durante la prima conferenza stampa organizzata una volta tornati al potere, ad agosto del 2021, fa un certo effetto. La comunità internazionale aveva riposto la sua fiducia in quello che credeva potesse essere un progetto ben distante dalle politiche attuate dai talebani l’ultima volta che erano stati al potere, dal 1996 al 2001. Ma il tempo ha dato ragione a chi aveva visto, in quelle parole, un drammatico presagio.

Tutto inizia, come spiega un articolo dell’emittente televisiva con sede in Qatar Al Jazeera, da un annuncio risalente a settembre 2021, meno di un mese dopo la presa di Kabul del 15 agosto: i talebani dichiarano che le donne potranno frequentare le università con ingressi e aule divisi per genere, seguendo uno specifico codice di abbigliamento e indossando obbligatoriamente l’hijab, e potranno seguire le lezioni tenute solo da insegnanti dello stesso sesso, o da uomini anziani.

L’esclusione dalla scuola

Il 23 marzo, poche ore dopo la riapertura delle scuole secondarie femminili per la prima volta dopo sette mesi di chiusura, i talebani annunciano che le studentesse afghane al di sopra della prima media non potranno più frequentare le classi fino a nuovo ordine. Ad agosto le scuole erano state chiuse a causa della pandemia di Covid-19, ma i ragazzi e le ragazze più giovani avevano potuto riprendere le lezioni due mesi dopo. Per le alunne più grandi, la chiusura è stata permanente.

Il divieto di uscire senza una presenza maschile

Il 7 maggio il leader supremo Hibatullah Akhunzada ordina alle donne di coprirsi il volto in pubblico. Il decreto pubblicato fa riferimento a una variante dell’hijab, il chadari, «poiché è tradizionale e rispettoso»: in Afghanistan è un burqa che copre interamente il corpo della donna, con un tessuto traforato all’altezza degli occhi. È diventato un simbolo globale della linea dura dei talebani al potere dal 1996 al 2001. Il decreto vieta anche di muoversi all’interno delle città senza una scorta maschile.

La repressione delle proteste

Il 13 agosto, a pochi giorni dall’anniversario della presa di Kabul, i talebani picchiano le donne che protestano per le strade della capitale al grido di “Pane, lavoro e libertà”, sparando in aria per dispendere le manifestanti. Una quarantina di donne, in quell’occasione, hanno marciato verso il ministero dell’Istruzione a Kabul chiedendo a gran voce di rispettare gli impegni presi dai talebani una volta tornati al potere. I talebani le hanno inseguite e colpite con il calcio dei loro fucili, confiscano i telefoni di molte donne e reprimendo, così, la prima protesta femminile da mesi.

Vietato entrare nei parchi

Dopo scuole e università, il 10 novembre i talebani vietano alle donne l’ingresso nei parchi, nei luna park, nelle palestre e negli “hammam”, i bagni pubblici tradizionali del Paese. La segregazione di genere si estende ad altri luoghi pubblici perché, secondo il portavoce del Ministero per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio, Mohammad Akif Sadeq Mohajir, «in molti luoghi, le regole sono state violate: nella maggior parte dei casi, abbiamo visto uomini e donne insieme nei parchi e, sfortunatamente, l’hijab non è stato osservato. Quindi, abbiamo dovuto prendere un’altra decisione». La restrizione, che va a colpire tutte le donne, con o senza un mahram (la scorta maschile), nega anche la possibilità di accompagnare i propri figli ai giardinetti.

Le fustigazioni in pubblico

Dopo la prima esecuzione pubblica di un condannato a morte, l’8 dicembre i talebani fanno assistere più di 1.000 persone all’interno di uno stadio alla fustigazione di 27 uomini e donne accusati di adulterio, furto, uso di droghe e fuga da casa. Da quel primo episodio a Charikar, nella provincia centrale di Parwan, le fustigazioni in pubblico sono state regolarmente eseguite in altre province.

Le università rimangono chiuse

Il 21 dicembre le guardie armate impediscono a centinaia di giovani donne di entrare nei campus universitari. Il giorno prima un comunicato del ministro dell’istruzione superiore ha annunciato un decreto di «sospensione immediata da tutte le università governative e private fino a nuovo avviso». Di recente un professore dell’università di Kabul, Ismail Meshal, durante una diretta televisiva su Tolo Tv, ha strappato i propri diplomi per protesta contro il divieto imposto dai talebani: «Se mia sorella e mia madre non possono studiare non accetterò questo sistema», ha detto. Sono più di 40 i professori universitari che si sono dimessi a seguito dell’annuncio del ministero dell’Istruzione. E a Kandahar centinaia di studenti, in solidarietà con le loro compagne escluse dall’istruzione, hanno abbandonato un campus universitario.

No al personale femminile nelle Ong

Il 24 dicembre l’amministrazione afgana gestita dai talebani ordina a tutte le organizzazioni non governative locali e straniere di impedire alle lavoratrici di recarsi al lavoro. Una lettera del ministero dell’economia afferma che le dipendenti non sono autorizzate a lavorare fino a nuovo avviso per aver violato il codice di abbigliamento imposto dai talebani. Il governo potrà ritirare la licenza alle Ong che non si adeguano alle nuove regole. Per ora, cinque organizzazioni non governative hanno sospeso le loro operazioni in Afghanistan a seguito dell’annuncio: tra loro, Save the Children.

Sulla vicenda sono intervenuti anche i ministri degli esteri di 12 Paesi e l’Unione europea, invitando le autorità a revocare la decisione. Anche le Nazioni Unite hanno chiesto la piena partecipazione delle donne e delle ragazze, mentre alcuni programmi attivi nel Paese sono stati temporaneamente interrotti e molti altri dovranno probabilmente essere sospesi a causa del divieto: escludere le lavoratrici delle Ong impedisce la fornitura dei servizi essenziali.

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