Diritti

The Last 20: l’organizzazione che dà voce a chi non ce l’ha

Nato a Reggio Calabria 2 anni fa, L20 vuole rappresentare “gli ultimi” Paesi del mondo, posizionati in fondo alle classifiche socioeconomiche. Per includerli nelle agende politiche internazionali
Credit: Martin Jernberg
Credit: Martin Jernberg Credit: Martin Jernberg
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27 febbraio 2023 Aggiornato alle 18:00

Guardare il mondo dal basso verso l’alto, cambiare prospettiva d’osservazione e i parametri che decidono strategie e politiche; essere dall’altra parte dello specchio che riflette solo questo lato del Pianeta e fare da contraltare al G20: questo è il senso di The Last 20, l’organismo che riunisce i 20 Paesi del mondo che si trovano agli ultimi posti nelle statistiche socioeconomiche e di sviluppo internazionali (Afghanistan, Burkina Faso, Burundi, Repubblica Centrafricana, Ciad, Repubblica Democratica del Congo, Eritrea, Etiopia, Gambia, Guinea, Guinea Bissau, Haiti, Libano, Malawi, Mali, Mozambico, Niger, Sierra Leone, Sud Sudan e Yemen).

Nato in Italia all’inizio del 2021 per volere di tante persone rappresentative delle diaspore, dell’associazionismo laico e religioso, di Ong, così come di elementi della politica e delle istituzioni italiane, The Last 20 vuole essere un laboratorio di riflessione e di azione, un think tank delle aree più marginalizzate e fragili, che misuri la temperatura sociale, economica e climatica del mondo, ma a partire da loro.

L’obiettivo è capovolgere l’ottica del Nord che governa il Pianeta e, al massimo, “aiuta a casa loro”, puntando a un’analisi decolonizzata per far emergere come il sistema faccia molti danni, e che questi danni li paga soprattutto il Sud. È la voce del dark side del Pianeta, quello negletto e impoverito - non “povero” - che giace in pessime condizioni perché soggiogato per secoli da schiavismo e colonialismo; perché sfruttato o abbandonato, come nel caso dell’Afghanistan, tenuto per 20 anni sotto una dispendiosissima sorveglianza occidentale e poi lasciato in mano ai Talebani, e che ormai è uscito del tutto fuori dall’agenda internazionale.

«Vorremmo rappresentare una sorte di lobby umanitaria in grado di contribuire a cambiare le politiche di cooperazione, peace making e migrazione da questi Paesi – spiega a La Svolta Ugo Melchionda, tra i fondatori del progetto - È decisivo che questi Paesi diventino prioritari per la cooperazione italiana ed europea, si potrebbe dire che, come bisogna portare la spesa per la cooperazione allo 0,70 del Pil (le stime più ottimistiche dicono che l’Italia dovrebbe raggiungere nel 2023 un rapporto tra aiuto pubblico allo sviluppo - Aps e reddito nazionale lordo - Rnl pari a circa lo 0,31%, molto sotto la media europea che è intorno allo 0,50, ndr), così occorrerebbe che almeno il 20% degli incrementi siano dedicati ai Last20. Per la pace occorre mettere al centro delle iniziative diplomatiche internazionali le politiche di peace making e di peace keeping, sforzandosi di depotenziare le questioni legate ai confini, alle risorse e alle relazioni interetniche. In L20 abbiamo studiosi internazionali, accademici, rappresentanti delle diaspore e delle Ong che, oltre a riportare dati dal campo, ci aiutano a sistematizzarli e fare pubblicazioni e opinione».

La prima, importante opera realizzata dal movimento è il Report Last Twenty 2022, una fotografia nitida che mostra le condizioni dei Paesi L20 attraverso statistiche, analisi, case study. Il rapporto, fresco di stampa e presentato il 21 febbraio nella sede della Stampa Internazionale a Roma, è diviso in 3 parti: la prima offre dati statistici a partire dagli indicatori legati a Sdg (Obiettivi di sviluppo sostenibile), la seconda è formata da relazioni sui diversi Paesi condotte delle Ong sul campo, mentre la terza parte comprende il contributo delle diaspore.

La diseguaglianza economica tra gli L20 e i G20 è cresciuta negli ultimi 15 anni in maniera esponenziale: nel 2004 il reddito pro-capite (a parità di potere d’acquisto) era di 30.300 $ nei G20, di 1.100 $ nei L20; nel 2019, negli L20 passa a 1.500 $ pro-capite mentre nei G20 arriva a 52.600$ pro-capite. Una distanza che è cresciuta non solo in termini assoluti, ma anche percentuali: nei Last20 il reddito pro-capite è cresciuto del 36,2, mentre nei G20 del 73,5%.

Il movimento, che riunisce i 20 ultimi Paesi della Terra, vuole quindi far arrivare la propria voce a quei primi 20 che prendono decisioni per i restanti 190 e passare un concetto tanto semplice quanto rivoluzionario: se a decidere e a proporre soluzioni ai grandi drammi del mondo contemporaneo sarà solo e sempre la parte più ricca (e non chi li sperimenta sulla propria pelle), se il punto di vista di chi vive, lavora, studia, lotta dall’interno e comprende evidentemente molto più di chi osserva da lontano non sarà preso in esame, la situazione del Pianeta peggiorerà.

L’urgenza su cui insiste The Last 20 è dovuta da una parte al fatto che sono gli ultimi Paesi della Terra a pagare per primi il deterioramento del mondo; dall’altra, al fatto che i popoli più impoveriti avrebbero molte cose da dire (e subito), per esempio riguardo le proprie incommensurabili risorse. «Non sono forse gli africani - si chiede retoricamente Odette Mbuyi, Vicepresidente dell’Assemblea The Last 20 e attivista, emigrata dalla Repubblica Democratica del Congo 25 anni fa - i più indicati a suggerire come utilizzare le infinite ricchezze di cui godono senza che si trasformino in benedizioni per altri e maledizioni per noi? Last 20 vuole essere la voce di chi non ha voce e raccontare esattamente quello che succede nei Paesi cosiddetti “impoveriti”».

«Il mondo - continua - deve imparare a rispettare i Paesi africani e dialogare con loro alla pari. I Paesi africani hanno le materie prime richieste dal mondo intero, proprio quelle che servono per lo sviluppo delle nuove tecnologie: è ora che esse vengano pagate al loro giusto valore per far sì che finalmente il rapporto sia win-win. Vogliamo cambiare la narrazione che da questa parte del mondo si fa dell’altra e crediamo che sia urgente trasformare il modo di fare cooperazione internazionale, che le azioni siano progettate per rendere autonome le popolazioni che si intende aiutare. È arrivato il momento di ascoltare e di rispettare una parte del mondo che è sempre stato sfruttata».

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