Diritti

Come stanno le donne in Africa?

Disparità di salario e zero work-life balance. Secondo il World Economic Forum, la parità di genere nel continente si raggiungerà tra 121 anni. E per le scienziate, l’equilibrio è ancora più difficile
L'Africa ha i più alti livelli di discriminazione di genere nei confronti delle donne nel mondo
L'Africa ha i più alti livelli di discriminazione di genere nei confronti delle donne nel mondo
Chiara Manetti
Chiara Manetti giornalista
Tempo di lettura 5 min lettura
6 febbraio 2022 Aggiornato alle 11:00

Più responsabilità familiari e domestiche, più discriminazione di genere, stipendi inferiori rispetto agli uomini, maggiori livelli di disoccupazione: è questa la situazione delle donne in Africa.

Dal report del 2019 dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico emerge che l’Africa ha i più alti livelli di discriminazione di genere nei confronti delle donne nel mondo. Secondo il Global Gender Gap Report 2021 del World Economic Forum, la parità di genere nell’intero Paese, cioè la totale uguaglianza tra i sessi e la piena partecipazione politica ed economica delle donne, potrà essere raggiunta solo tra 121,7 anni. Nel 2020 il dato era 95: un aumento di più di sei anni in soli 365 giorni. Ma esistono delle eccezioni, nel continente: nella classifica mondiale della parità di genere il Ruanda si posiziona al settimo posto, preceduto da Stati occidentali quali Islanda, Norvegia e Svezia.

Sul fronte economico i dati preoccupano: la paga delle abitanti dell’Africa subsahariana equivale al 67% di quanto guadagnano i loro colleghi maschi e in regioni come il Gambia e il Ghana le donne lavorano molte più ore al giorno rispetto agli uomini, con una disparità salariale che si attesta al 65% e al 68,9%.

Per quanto riguarda l’occupazione, le giovani donne sono il 50,1% dei 226 milioni di giovani disoccupati tra i 15 e i 24 anni nel continente. Una situazione data dalle condizioni delle ragazze, che hanno competenze limitate - e quelle che hanno non coincidono con le richieste del mercato del lavoro - e in generale per cui mancano opportunità di lavoro. Il tasso di disoccupazione femminile, però, così come la discriminazione di genere, varia di Paese in Paese: nel 2020 toccava il 34% delle donne in sudafricane, seguite dal Sudan (28,8%). Ma nel Niger la disoccupazione rosa riguarda solo lo 0,37% della forza lavoro femminile nel Paese.

Il Covid-19 non ha aiutato: la perdita di posti di lavoro nel periodo pandemico ha colpito più le donne che gli uomini africani. L’occupazione maschile ha registrato il calo più contenuto rispetto a ogni altra area del mondo, con lo 0,1% tra il 2019 e il 2020, mentre quella femminile è diminuita dell’1,9%. La maggior parte delle donne occupate, circa il 75%, rientra in quella che è chiamata economia informale, detta anche grigia, cioè quella difficilmente misurabile dalle statistiche perché non controllata né tassata. Fatta di lavoratrici sottopagate, sfruttate, escluse dal settore manifatturiero e più dedite a quello domestico e alla cura dei bambini e degli anziani.

La rivista Nature ha lanciato una rubrica per coinvolgere le donne africane che si sono affermate nelle carriere scientifiche, condividendo le loro storie. La microbiologa Ahmed El-Iman, dell’Università di Ilorin, in Nigeria, si descrive come una supereroina per come riesce a destreggiarsi tra vita lavorativa e vita familiare. Quando prese il diploma di master in Microbiologia, era sposata e aveva appena avuto il suo primo figlio: «Fu allora che mi resi conto che sarebbe stato difficile essere una ricercatrice, una moglie e una madre».

Come donna africana, la prima responsabilità è la prole. «Nient’altro, anche se hai un partner comprensivo» racconta. Le faccende domestiche e di assistenza all’infanzia gravano al 100% sulle spalle delle madri. Spostandosi in Inghilterra, qualche anno dopo, per un dottorato di ricerca, ha dovuto portare con sé i tre figli, contando però sul sostegno economico del marito. Di ritorno in Nigeria, stavolta come docente, non solo insegna, ma svolge anche attività di ricerca per la comunità, «ma non ci sono fondi né sovvenzioni e la concorrenza è alta». E così si mettono da parte fondi provenienti dal proprio stipendio, che per un docente è di circa 800 dollari mensili: «Il denaro viene messo in condivisione per acquistare materiali e piccole attrezzature per i laboratori».

E quando le attrezzature costano tanto, si tenta di produrla localmente. «La ricerca non è così precisa come vorremmo che fosse, ma facciamo di tutto per essere pubblicati sulle riviste, anche se costa parecchio: quindi diamo gli studi a riviste gratuite o ad accesso aperto che non applicano commissioni, ma che impiegano molto tempo per pubblicarle». Il lavoro di Ahmed El-Iman è demoralizzante, «ma andiamo avanti. Non felicemente, ma volentieri, facciamo questi sacrifici per fare la ricerca». Essere una donna Stem in Nigeria è scoraggiante, dice. Tra i figli e il lavoro, non ha tempo di partecipare alle conferenze o condurre le ricerche. «È un gioco a somma zero: più tempo dedichi alle faccende domestiche, meno tempo dedichi alla tua carriera. Tutto questo perpetua la percezione che le donne siano incapaci o incompetenti. E questo non è vero».

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