Diritti

Donne e lavoro: Italia 13° nel G20

Molte vorrebbero lavorare ma non possono, spiega l’Osservatorio Permanente sull’Empowerment femminile. La parità di genere è ancora lontana, sia in termini di occupazione che di salari
Credit: Garrett Rowland/Courtesy of IA Interior Architects
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14 dicembre 2022 Aggiornato alle 17:00

In Italia la parità di genere è ancora lontana, specialmente nel mondo del lavoro. Secondo i dati dell’Osservatorio permanente sull’Empowerment femminile di The European House Ambrosetti, l’Italia si trova al tredicesimo posto tra i paesi del G20 per quanto riguarda la partecipazione lavorativa femminile.

Questo significa che sono ancora molte le donne che vorrebbero un’occupazione ma non riescono ad accedere al mercato del lavoro. In Italia il tasso di partecipazione femminile alla forza lavoro si attesta al 54,7%, contro la media del 59,3%. Ai primi posti della classifica ci sono Germania, Canada e Australia, mentre Arabia Saudita, Turchia e Sudafrica si trovano in coda.

C’è qualche dato rassicurante con cui consolarsi: l’Italia ha guadagnato una posizione per quanto riguarda la condizione delle donne sul posto di lavoro e si piazza al quinto posto (con un punteggio di 90,9 su 100) tra i paesi del G20, dietro Francia, Australia, Spagna e Canada. Un buon risultato ottenuto anche grazie a una legge “pioneristica”: la cosiddetta Golfo-Mosca, approvata nel 2011 e poi estesa alla fine del 2021, che impone ai Cda delle società quotate almeno un 40% di donne (o di uomini, se quello maschile è il genere meno rappresentato) fra i suoi membri eletti. In Europa è stata approvata solo quest’anno una direttiva analoga a quella nostrana.

Diversi studi hanno dimostrato come l’inclusione lavorativa delle donne non sia soltanto auspicabile dal punto di vista dei diritti, ma anche redditizia. Secondo il Boston Consulting Group le aziende con almeno il 30% dei dirigenti donne hanno un aumento del 15% della redditività rispetto a quelle a guida esclusivamente maschile. L’Osservatorio permanente sull’empowerment femminile di Ambrosetti ha stimato che colmare il gender pay gap porterebbe a un impatto economico annuo pari al 14% del Pil dei paesi del G20.

Un altro strumento è stata la legge Gribaudo, approvata lo scorso anno, che modifica il codice delle pari opportunità tra uomo e donna in ambito lavorativo per ridurre le differenze nelle retribuzioni. Anche i fondi del Pnrr potrebbero aiutare a risollevare la situazione, grazie a un investimento del 20% delle risorse destinato a riequilibrare gli stipendi a favore delle donne.

Una misura resa necessaria da un divario salariale medio del 20% (contro il 13% della media europea), che penalizza le lavoratrici fino al punto di allontanarle dal mercato del lavoro in alcuni casi. Inoltre le disuguaglianze in termini di retribuzione crescono di pari passo con il livello di istruzione raggiunto. Dal 5,4% tra i diplomati alle scuole professionali, al 30,4% tra i laureati, fino ad arrivare al 46,7% tra chi ha conseguito un master di secondo livello.

Tra quelle che riescono a trovare un’occupazione molte devono accontentarsi di un lavoro a tempo parziale. Il part-time involontario sta diventando un fenomeno molto diffuso, in particolare per le donne e per i giovani, per cui chi vuole lavorare deve accettare un orario (e di conseguenza uno stipendio) ridotto. In questa situazione si trovano quasi 1,9 milioni di donne, ovvero il 61,2%: tre volte la media europea (21,6%).

A risentire delle disuguaglianze lavorative sono soprattutto le donne con figli. Nel 2021 per la fascia d’età compresa tra i 25 e i 49 anni l’occupazione era del 73,9%. Ma la percentuale scende a 53,9% per le donne con un figlio minore di sei anni. La situazione peggiora nettamente al Sud, dove solo il 35,3% ha un’occupazione, quasi la metà rispetto al Centro (62,7%) e al Nord (64,3%). All’interno dell’area euro la media delle donne con figli che lavora è del 71,6%.

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