Diritti

La pace (come la guerra) è maschile

I colloqui di conflict resolution in Afghanistan sono gestiti al 90% da uomini, in Ucraina al 100%. Eppure, la presenza di donne nei processi peace building aumenta del 35% le possibilità che l’accordo duri nel tempo
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19 dicembre 2022 Aggiornato alle 07:00

Fare la guerra, in tempi di spese record per armamenti – 2.100 miliardi di dollari nel 2021 nonostante la pandemia – di tensioni geopolitiche che si diffondono a macchia d’olio, è molto più facile che fare la pace. Gli sforzi che nel mondo si compiono per cercare di ricomporre conflitti, di aprire tavoli negoziali, creare occasioni di dialogo o, perlomeno, di favorire tregue nei combattimenti e permettere alle popolazioni civili di respirare, si segnalano storicamente più come fallimenti che successi.

Se pensiamo alla crisi ucraina, alla guerra in Yemen, in Siria e ai conflitti in atto in Africa ci tornano alla mente i tanti tentativi – millantati o reali – falliti tra la frustrazione degli osservatori e la disperazione delle popolazioni coinvolte. Il trend è in linea con la storia: secondo una ricerca dell’Uppsala universitet, Svezia, tra il 1946 e il 2005, solo 39 dei 288 conflitti, ovvero il 13,5%, si sono conclusi con un accordo di pace. Naturalmente mettere insieme 2 o più fazioni che si uccidono, si torturano, si recludono non è semplice.

Secondo una mole sempre maggiore di studi e indagini, però, all’alto tasso di insuccessi concorrerebbero una serie di fattori esterni come, a esempio, la composizione delle squadre alla conduzione dei processi. Per capire meglio cosa si intenda citeremo i casi di 3 gravi crisi di strettissima attualità, l’Ucraina, lo Yemen e l’Afghanistan.

Ad accomunare i processi di pace o negoziazione di questi 3 Paesi noti per un permanente e ormai lungo contesto di guerra è un elemento: sono tutti condotti da uomini. I colloqui o le mediazioni per la pace in Yemen sono nella mani di uomini al 96%, in Afghanistan al 90%. La palma spetta all’Ucraina dove ogni tentativo di dialogo è stato organizzato, condotto e, fin qui, fallito, da uomini al 100%. Le donne, in altre parole, non sono ritenute meritevoli di considerazione nei processi di facilitazione e di mediazione. La pace, così come la guerra, è roba per maschi.

Eppure, stando alle statistiche, l’inclusione di donne nei processi di peace bulding, conflict resolution o peace keeping, quando sperimentata, risulta nettamente positiva da qualsiasi lato la si osservi. Secondo studi, analisi, ricerche sul campo, avvalorati da organismi transnazionali come l’Onu, l’Osce, l’Ue o da una serie di realtà internazionali come il Think Tank americano Council on Foreign Relations, la presenza di donne nei processi di pace in qualità di firmatarie, mediatrici, negoziatrici o semplici testimoni, aumenta del 20% le possibilità che l’accordo regga almeno 2 anni, che duri stabilmente del 35%.

Nell’articolo Towards inclusive peace: Analysing gender-sensitive peace agreements di Jacqui True e Yolanda Riveros-Morales, si prendono in analisi 98 peace agreement raggiunti in 55 Paesi tra il 2000 e il 2016 e si dimostra che quando le donne partecipano ai processi di pace le probabilità di successo sono “significativamente maggiori” così come sono decisamente più alte le eventualità di raggiungere un accordo di pace con articoli dedicati al “rispetto di genere e alla costruzione di una società più giusta” nel post-conflitto. Se nei processi vengono chiamati a partecipare i gruppi di pressione femminili della società civile, attiviste, donne impegnate in politica, poi, il tasso di possibile insuccesso crolla verticalmente: 64%, mentre salgono le probabilità di misure contro la diseguaglianza sociale, il rispetto di genere, la cura dell’infanzia ecc.

In qualsiasi azienda che voglia fare profitto e avere successo, basterebbe una minima parte di questi dati per operare un rapido shift di genere nella leadership. Nel mondo parallelo dei decisori politici non funziona così.

Tra il 1992 e il 2019, le donne hanno costituito, in media, solo il 13% dei negoziatori, il 6% dei mediatori e il 6% dei firmatari nei principali processi di pace in tutto il mondo. Circa 7 processi su 10 escludono ancora del tutto donne mediatrici o firmatarie mentre nel settore della sicurezza, dove il personale femminile ha spesso accesso a popolazioni e luoghi preclusi agli uomini e può quindi raccogliere informazioni su potenziali rischi per la sicurezza, la partecipazione delle donne è ancora minima. Le stesse Nazioni Unite, in prima linea nell’insistere a parole e a suon di risoluzioni sull’importanza dell’inclusione di donne nei processi di pace, quando si tratta di farlo, si dimostrano incoerenti: nel 2021, la rappresentanza femminile nei processi di pace guidati dall’Onu, già storicamente bassa, è addirittura scesa dal 23% del 2020 al 19.

Uno dei risultati collaterali di processi svolti senza o con pochi elementi femminili è che solo il 20% contiene riferimenti a donne, ragazze e di genere e che solo il 6% presenta almeno una disposizione che riguardi specificamente la violenza contro le donne.

«È un mondo dominato da uomini – denuncia Nilofar Ayoubi, leader di Women’s Political Participation Network, scrittrice e attivista incontrata a margine dell’evento dello scorso 13 dicembre Women for peace: the Afghan challenge Insights from the Task Force of Afghan women promosso da Wiss Italy (Women in International Security) in collaborazione con il Ministero degli Esteri – che colleziona errori e continua a perpetrarli. Ci sono moltissime rappresentanti della diaspora afghana che sono attive in molti luoghi del mondo ma non veniamo coinvolte nei tavoli di pace. È ora che ci riconoscano pienamente come soggetto politico».

«Sebbene fossimo solo 4 – le fa eco Fatima Gailani Afghan, una delle 4 mediatrici donne nei colloqui con i Talebani a Doha nel 2021 – il processo ebbe risalto proprio grazie alle donne, ottenemmo un grande supporto da tante donne in tutto il mondo. Purtroppo il problema della scarsa partecipazione delle donne nei processi è universale e affonda le sue radici nei millenni. Ci vuole tempo e grande dedicazione. Qualcosa sta cambiando e ciò ci incoraggia».

Alle donne, inoltre, non viene riconosciuto un grandissimo lavoro che già svolgono quotidianamente nei contesti di conflitto o gravi tensioni, che è quello di facilitare il dialogo, tentare mediazioni, frapporsi talora fisicamente tra le fazioni in lotta, all’interno delle proprie comunità. «Le donne – spiega Loredana Teodorescu coordinatrice del Network delle Mediatrici del Mediterraneo, un organismo promosso dalla Farnesina e dall’Istituto Affari Internazionali, e Presidente di Wiis Italy – spesso in modo invisibile sono protagoniste nella creazione di contatti tra le fazioni che si fanno la guerra all’interno delle proprie comunità e aiutano a ricucire le fratture e a porre le basi se non di un accordo di pace, almeno di un drenaggio alle crudeltà della guerra. È un ruolo fondamentale che deve essere riconosciuto ed è anche per questo che, se incluse, le donne, aumentano nettamente le possibilità di successo dei processi e le probabilità che tali siano inclusivi e rispettosi dei diritti di tutti».

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